lunedì 2 novembre 2009

Foglie in autunno


C'è un bellissimo racconto di Mauro Corona, sulle foglie in autunno. Ogni foglia ha una sua storia, una sua personalità. Basta saperle osservare.

LE FOGLIE

Ad ogni ritorno dell’autunno gli alberi lasciano cadere le foglie. Sono stanchi, sfiniti disorientati dalle carezze di bizzarre primavere e torride estati. Hanno sopportato pazienti, temporali, uragani, venti improvvisi e violenti e il sole di luglio che ha brunito le loro chiome di un bel verde bronzo antico. Ora hanno voglia di riposare, riflettere e apprestarsi al sonno dell’inverno.
In questa fase preparativa devono essere soli, perciò lasciano cadere le loro foglie sulla terra. Prima però di abbandonarle ai venti dell’autunno le vestono con abiti splendidi, tinti di mille colori, caldi e accesi. È il loro ultimo regalo di genitori prima che esse si disperdano, ognuna nel proprio ignoto viaggio. Ma alla nascita ogni foglia eredita geneticamente le peculiarità del padre albero, così che, all’avvicendarsi della morte autunnale, si può capire, dal modo in cui le foglie cadono, il carattere di ogni famiglia chiomata.
Per rendersene conto basta andare nei boschi il mese di novembre, sedersi e ascoltare. Il fenomeno incuriosirà l’orecchio di tutti.. Il larice solitario e malinconico, re dei costoni ripidi, lascia cadere i suoi aghi silenziosamente, al minimo tocco di mano o di alito di vento. Gli aghi non volano via ma si depositano ai suoi piedi con brusio lieve di finissima pioggia. Sono riconoscenti verso il genitore e non vogliono morire lontano da lui.
Vi è poi diritto, liscio, bianco e bello, l’acero altezzoso. Le sue foglie, quando cadono, devono farsi notare, come il padre. Allora nel silenzio del bosco si udranno rumori secchi come di cartocci pesanti che piombano in terra. Da lì le foglie vorrebbero andarsene subito a farsi vedere anche altrove, ma i giovani venti non le degnano di un soffio. Solo qualche vecchio refolo stanco e brontolone le muove un po’ qua e là, per non sentirsi inutile.
Il duro, contorto, stentato e ossuto carpino è un essere timido e triste. Si vergogna della sua forma senza grazia e se ne sta in disparte, in luoghi impervi e pietrosi. Le sue foglie non fanno rumore a morire; cadono in silenzio e lo fanno anche di notte. Quando sono sul terreno si nascondono tra i sassi che danno vita allo sfortunato genitore.
Il faggio, invece, da incosciente pazzerellone a cui tutto va bene e non si scompone in nessuna situazione, si separa dalle sue chiome così come vive, con allegria e noncuranza. Le manda via ridendo, a sciami interi, leggere e chiassose, fluttuanti nell’abito marrone scuro. Le foglie si sparpagliano dappertutto, senza il minimo rimpianto del luogo natio. Giocano con i venti capricciosi e preferiscono quelli bizzarri e violenti che le portano in ogni dove. Irridono alla morte, le foglie di faggio, e stanno molto unite al momento del distacco. Infatti, quando Eolo si riposa nelle grotte di Bozzìa, si possono incontrare nei luoghi più strani cumuli enormi di foglie di faggio, già pronte a ripartire.
Il frassino, bello, elegante e pieno di classe, non ama la monotonia dei luoghi comuni e odia la linea retta. Cresce alto e sinuoso nelle sue curve si possono intravvedere forme umane. Non si separa dalle foglie prima di aver insegnato loro la danza, ed esse, quando è giunto il momento di andarsene, lo fanno con arte e senza rimpianti, scendendo in terra girando e piroettando con grazia come virtuose ballerine. E non si fermano nel punto di caduta ma vanno lontano, incontro al loro destino, sempre ruotando armoniosamente.
Ma se una di esse, mentre stai nel bosco, si posa per caso vicino a te osservala: noterai nel suo viso cartaceo la malinconia.
Vi sono anche alberi egoistici, cinici, possessivi e dominatori. Quelli che non vorrebbero mai invecchiare e che, come certi genitori, esigono e pretendono che i loro figli siano i più bravi e i più belli, e che mai si allontanino da loro. Un esempio, fra i tanti, è l’agrifoglio. Sempre pulito, perfetto e in ordine, eclatante nel contrasto tra le bacche rosso sangue e le foglie sempre verdi. Il genitore le tiene fissate a se stesso, estate e inverno, e si vanta della sua splendida famiglia.. ma quelle foglie hanno addosso la rabbia e il rancore di non potersi mai muovere, di non conoscere altre foglie e di confrontarsi con loro. Sono diventate acide e scontrose come vecchie zitelle; il loro corpo si è fatto ostile e ha preso linee nervose e dentato con il bordo dentato e spinoso. Sul loro viso non vi è tristezza o malinconia ma solo odio e invidia per le fortunate sorelle che possono morire volando via.
Le foglie del pioppo fanno parte della vasta categoria dei figli sfortunati. Il loro padre è un albero disgraziato: non ha nessun pregio, viene evitato da tutti e non è buono nemmeno per fare fuoco. Lui tenta di consolarsi dicendo che dalle sue foglie nasce la carta per i libri, ma dentro di sé sa benissimo che è una magra consolazione. Quando cadono, le foglie del pioppo sono quasi già morte. Vogliono farla finita presto, ancora prima di staccarsi dai rami. Scendono molto veloci perché l’aria non le regge più a causa dei buchi che una vita infelice ha aperto nel loro tessuto. Scompaiono presto nell’humus, e nel loro mesto volo non hanno più alcun colore.
Il maggiociondolo è un albero nobile, fiero e duro. Non è superbo come il noce o il tasso ma molto riservato: un genitore premuroso e fatalista che abbandona le sue foglie con decisione e le concede ai venti autunnali senza rimpianti. Esse abbracciano il terreno con dolcezza in gruppi di tre per volta, tenendosi per mano come buone sorelle. Resteranno attaccate insieme per molto tempo fino a quando il gelo della terra non verrà a separarle. Nel frattempo il maggiociondolo si sarà addormentato con la coscienza tranquilla.

Il noce è il più antipatico, arrogante, superbo e pieno di boria di tutti gli alberi che conosco. Nel mio lavoro devo vedermela spesso con lui e gli ho chiesto il perché di tanta tracotanza.
“E’ colpa vostra – ha risposto – siete stati voi, uomini incauti, a concedermi potere attribuendomi tutti quei pregi che forse non ho. Come fate, del resto, con molte altre cose inutili. Assegnate valori supremi e irrinunciabili a mille cretinerie per complicarvi la vita. Volete mobili in noce, pavimenti in noce, scale in noce, cruscotti di auto in noce, e perfino la cassa da morto in noce. Con la vostro ignoranza e stupidità mi avete reso potente e ora ne pagate le conseguenze.
Non risposi.
Le foglie del noce scendono giù con clamore, sprezzanti e fracassone. Nemmeno morendo rinunciano a farsi una sfacciata pubblicità. Volano unite in rametti composti di nove sorelle attirando l’attenzione come per dire:
“Attenti tutti, stiamo crepando, ma siamo foglie di noce!”
Però si spengono con coraggio consolandosi nella convinzione che tutto prima o poi deve morire. Una di loro, un giorno che si discuteva di morte, intuì il mio timore e ghignò:
“Non te la prendere, che anche la morte muore, perché quando si muore, muore con noi anche la morte.”
Le foglie di noce non sono più utilizzabili nemmeno nei lavori dei contadini a causa di una vecchia storia.
Una volta, il capostipite di tutti i noci del mondo ebbe un diverbio con una mucca che si grattava le corna su per la sua corteccia. Volarono parolacce perché neanche la mucca scherzava. Allora il noce stizzito decise di non concedere mai più le sue foglie per fare il letto alle bestie. Da quel giorno se un contadino s’azzarda a usare come strame le foglie di noce, in poche ore le mucche che vengono a contatto con esse non danno più latte.
Non è più possibile, per ovvie ragioni di spazio e di conoscenza analizzare i momenti ultimi di tutte le foglie della Terra. L’osservare questa realtà però mi ha fatto riflettere. Ho notato come sempre in natura esistano esseri fortunati e altri disgraziati, oppure brutti, potenti, miseri, simpatici, meschini e così via. Anche nel regno vegetale, come in quello degli uomini e in tutto ciò che ha vita, c’è chi muore in silenzio e che se ne va con clamore di trombe. Ma so anche per esperienza che quando quest’inverno andrò a camminare per i boschi ormai spogli, di tutte quelle foglie non vi sarà più traccia. Colori, profumi, brusii, silenzi saranno scomparsi in un unico, informe strato incolore. E verrà allora la prima neve a coprire col suo bianco velo pietoso quei miliardi di morti diversi, diventati ora tutti uguali.

Mauro Corona da “Il volo della martora”
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lunedì 29 giugno 2009

Riflessioni di un manager qualunque


Articolo pubblicato su 7th floor e presentato al Festival dell’innovazione. Roma

“Il futuro non è più quello di una volta” si può leggere sul muretto del ponte che collega il Parco Sempione con via XX settembre passando sopra le Ferrovie Nord a Milano.
Certo, penso fra me e me, è vero il futuro non è più quello di una volta e probabilmente questo è sempre stato vero per tutte le epoche e tutte le generazioni, ma oggi che il futuro non sia più quello di una volta forse è ancora più vero di un tempo.
“I secoli precedenti hanno sempre creduto in un futuro o ripetitivo o progressivo. Il XX secolo ha scoperto la perdita del futuro, cioè la sua imprevedibilità.”* . Dunque è così, il futuro non si può prevedere, le conoscenze cambiano rapidamente, le aziende ed il lavoro si trasformano con altrettanta rapidità e quindi come attrezzarsi per il futuro?

“Una grande conquista dell’intelligenza sarà, infine, quella di potersi sbarazzare dell’illusione di predire il destino umano. L’avvenire resta aperto e imprevedibile.”
Oddio aperto e imprevedibile! E come faccio ad organizzarmi la vita, dove li metto i miei progetti e i miei desideri, a cosa potranno mai servire le mie competenze, che cosa me ne farò della mia esperienza in un futuro senza direzione?
“L’inatteso ci sorprende. Il fatto è che ci siamo installati con troppa grande sicurezza nelle nostre teorie e nelle nostre idee, e che queste non hanno alcuna struttura di accoglienza per il nuovo. Il nuovo spunta continuamente: non possiamo mai prevedere il modo in cui si presenterà, ma dobbiamo aspettarci la sua venuta, cioè attenderci l’inatteso.”* Eh già, facile a dirsi, ma intanto io come mi sento ad attendere l’inatteso, a non sapere dove dirigere i miei sforzi perché tanto tutto è imprevedibile. Solo ai tempi di mio padre sapevi che prendere quel tipo di laurea ti avrebbe assicurato una certa carriera professionale, ma ora a trent’anni, hai già cambiato diverse mansioni e continuamente l’azienda ti chiede di cambiare per star dietro a fusioni, nuove tecnologie, nuovi modi di gestire i clienti.
“E, una volta giunto l’inatteso, si dovrà essere capaci di rivedere le nostre teorie e idee più che far entrare con il forcipe il fatto nuovo nella teoria incapace di accoglierla veramente.”*
Alle volte addirittura annullare le nostre teorie, con il coraggio di chi riparte da zero se per davvero vuoi accogliere il nuovo, ma questo quanto mi costa, per cosa tutta questa fatica?
“Come l’ossigeno uccideva gli esseri viventi primitivi fino a quando la vita non utilizzò questo corruttore quale disintossicante, così l’incertezza, che uccide la conoscenza semplicistica, è il disintossicante della conoscenza complessa.”*
Dunque è questione di sopravvivenza, rinunciare alle mie certezze e coltivare deliberatamente l’incertezza è l’unica speranza per sopravvivere. Ma alle volte, lo ammetto, l’incertezza più che apparirmi come il disintossicante della conoscenza semplicistica, mi fa passare notti insonni a chiedermi cosa farmene della mia esperienza. La parola d’ordine per tutti sembra essere cambiamento ma a volte a questa parola segue come pensiero immediato la perdita del proprio sapere.
“Ciò di cui ci stiamo occupando è l’esperienza di imparare ad imparare, imparare a risolvere i problemi e a prendere decisioni, o più precisamente imparare circa l’incertezza, il disagio, l’ansia connessi con la risoluzione dei problemi, il lavoro, il creare.”**
È così, è proprio così:il contenuto della mia conoscenza alle volte è solo un fardello, è una falsa sicurezza di poter sapere, è una conoscenza chiusa e ripetitiva che impedisce anche solo di vedere nuovi problemi e nuove soluzioni. Ed è altrettanto vero che guardare al futuro vuol dire misurarsi con il disagio e con l’ansia e imparare a non farsene travolgere.
Ma tutta questa fatica solo per la sopravvivenza?
“Voglio trovare un senso a questa storia
Anche se questa storia un senso non ce l’ha.
Voglio trovare un senso a questa vita
Anche se questa vita un senso non ce l’ha”***
Ecco è questo, la fatica la posso fare purché abbia un senso, un senso per me. Il cambiamento va bene, l’azienda mi chiede continuamente di cambiare ma perché cambiare se non so a che cosa serve il mio lavoro. Mi chiedono di motivare le persone, ma come posso farlo se a volte io stesso perdo il senso di quello che sto facendo?
Ecco dare un senso al mio lavoro, anche se, adesso, un senso non ce l’ha.
“Ripensare ai propri pensieri, anche sul lavoro, significa provocare ispirazione, creatività, innovazione, e aumentare la libertà”****
Anche dentro le organizzazioni, è questo che è necessario cercare: uno spazio per ripensare ai propri pensieri. Quale innovazione ci può essere se non c’è poesia, ispirazione, creatività? Ma incredibilmente queste parole sembrano fare a pugni con il linguaggio delle aziende, cosa c’entra l’ispirazione con il raggiungimento degli obiettivi, cosa c’entra la libertà con il profitto aziendale?
Eppure come posso essere innovatore se non mi sento libero ed ispirato?
“Le certezze stanno tramontando e per affrontare i problemi di oggi non bastano il metodo e la dottrina consolidata: i nuovi strumenti vanno cercati soprattutto dentro di sé e nelle persone intorno a sé.”****
Come posso essere creativo, io con le mie persone, se la mia e la loro anima è altro dal lavoro di tutti i giorni? Fermarsi e riflettere dunque sui propri pensieri e alimentare la forza creativa interiore.
“Voglio trovare un senso a questa vita
Anche se questa vita un senso non ce l’ha
Sai che cosa penso
Che se non ha un senso
Domani arriverà...
Domani arriverà lo stesso”***
Certo domani arriverà lo stesso, ma quante persone, colleghi di successo, ho visto svuotarsi piano piano a furia di super lavoro e ad un certo punto non poter dare più nulla né al proprio lavoro né alle loro stesse vite? Quante persone ho visto inaridirsi e perdere se stesse…
“Il miracolo dell’osservare è che mentre stai osservando il tuo corpo, il tuo osservatore diventa più forte;mentre osservi i pensieri, il tuo osservatore diventa più forte. Quando stai osservando i tuoi stati d’animo, l’osservatore è diventato così forte che può rimanere sé stesso, a osservare se stesso, proprio come una candela che , nella notte oscura,non illumina soltanto tutto ciò che ha intorno, ma illumina anche se stessa.”*****
Ringrazio il writer milanese che con il suo pensiero ha scatenato riflessioni, timori, speranze di un manager come tanti. Forse il futuro non è più quello di una volta, ma attrezzarsi per il futuro, come un tempo, è cercare la propria creatività, trovare il coraggio di ascoltare se stessi, creare gli spazi per la propria libertà. E accettare infine di essere un vero innovatore, non di subire il cambiamento.
“Tempo verrà in cui,
con esultanza saluterai te stesso,
arrivato alla tua porta,
nel tuo specchio [….]”******


* Edgar Morin. “I sette saperi necessari all’educazione del futuro”
** Elliot Jaques ,“Lavoro creatività e giustizia sociale”
***Vasco Rossi, “Un senso”
**** Andrea Vitullo, “Leadership riflessive”
***** Osho, “The Golden Future”
****** Derek Walcott, “Mappa del nuovo mondo”
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martedì 2 giugno 2009

Sciamanager (sviluppare leadership con lo sciamano)

Da qualche tempo collaboro con www.formazione-esperienziale.it come "inviato speciale" e questo è l'inizio del resoconto della mia prima spedizione.

Sii impeccabile con la parola, non prendere nulla in modo personale, non dare niente per scontato, fai sempre del tuo meglio, esiste solo un momento – questo. Comincia in questo modo Sciamanager, con queste cinque non facili “regole” e con l’accordo di resettare il proprio passato per focalizzarsi esclusivamente nel presente, come in una sorta di mondo parallello. Un po’ di mistero e siccome nessuno sa chi sei e cosa hai fatto finora, la possibilità finalmente di non recitare sempre la solita parte.
E questo direi è il primo punto forte, originale e catalizzante: non parlare del proprio passato, del proprio lavoro, della propria immagine ma concentrarsi solo sul qui ed ora. È già un bell’esercizio.

Naturalmente ci sta una breve introduzione allo sciamanesimo, alla visione tolteca e alle sue concezioni fondamentali. Prima fra tutte, probabilmente ispiratrice di questo corso, la concezione che tutto è energia e campi energetici, e quindi qualsiasi evento può essere letto in questa chiave. L’energia se non viene bloccata da abitudini, pensieri ricorrenti ed emozioni parassite porta allo sviluppo, alla trasformazione e al cambiamento. Da questo punto in avanti la maggior parte del corso è dedicata ad esercizi per attivare l’energia, per essere consapevoli (e domare) il proprio dialogo interno, per conoscere e sviluppare le emozioni che portano alla trasformazione, per diventare insomma un guerriero che combatte e si muove nel mondo con forza e libertà. Un corso per leader, ma che non parla di comportamenti da leader; tanto per intendersi niente lista delle azioni che differenziano il leader dal manager o che definiscono i vari stili di leadership.
E questa è già un’altra buona notizia, una formazione alla persona e non al ruolo. Una sensibilizzazione all’ascolto, di sé, della natura e della sua energia, per decidere ognuno in autonomia i propri comportamenti da leader-guerriero. Belli gli esercizi su cosa pensa la mia testa, sull’inventario di energia. Forse potrebbe aiutare qualche stimolo in più per esercitarsi su energia e contesto lavorativo.

Mito e rituale è un altro focus originale......

Per continuare a leggere vai su www.formazione-esperienziale.it Ti puoi iscrivere e scaricare un sacco di documenti interessanti.


A chi consigliarlo: a tutte quelle aziende e persone che non hanno paura di cambiare (o che forse ce l’hanno ma nonostante questo lo desiderano fortemente). Se siete interessati la prossima edizione è il 20 e 21 giugno (http://www.sciamanager.com/).

A chi sconsigliarlo: a quelle aziende e persone che hanno bisogno di un approccio razionale, che vogliono sapere con chiarezza contenuti, metodi e soprattutto output.


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lunedì 16 marzo 2009

CONFINE O CONFINO? PROSPETTIVE DEL NEO NOMADISMO IN TEMPI DI CRISI


“E’ come trovarsi di fronte ad un immenso spazio vuoto, ma non il baratro nel quale mi sembrava di precipitare quando mi svegliavo di soprassalto la notte, no…è come una distesa infinita dove si vede l’orizzonte. Certo ogni tanto ho paura, chissà cosa mi accadrà, ma se ripenso a quello che mi sono lasciata dietro, ancora mi sento soffocare, come in una prigione angusta.”.
Nel deserto, terra d’elezione dei popoli nomadi ed esempio eccellente di assenza di confini, chi arriva dalle nostre claustrofobiche città spesso prova un senso di vertigine di fronte all’immensità dello spazio. La stessa vertigine che possiamo provare di fronte alle nuove possibilità che non abbiamo mai considerato, perché al di là dei nostri immaginari confini.
Così le parole di Sophie, raccolte in uno degli ultimi incontri di coaching, testimoniano la nuova prospettiva di chi ha scelto di ampliare i suoi orizzonti.
La cultura stanziale dell’occidente, centrata su organizzazione e previsione, ci ha abituati a costruirci delle prospettive ben definite entro cui agire. Eppure la storia degli ultimi anni sempre più spesso ci lancia messaggi discrepanti, la globalizzazione, le nuove tecnologie, i mercati finora sconosciuti mettono tutti i giorni alla prova la nostra sedentarietà.
La stabilità è continuamente minacciata e allo stesso tempo minacciante.

Essere Nomadi vuol dire rinunciare ad un lavoro che non piace, come Sophie, che un po’ nomade lo è sempre stata. Nata negli Stati Uniti da padre francese e madre argentina, entrambi i genitori musicisti è stata abituata fin da bambina a spostarsi per seguire le loro tournee. A tre anni conosce già tre lingue, altre tre le impara crescendo. Agli spostamenti con i genitori seguono gli spostamenti per studio, poi per accompagnare il marito. Dopo l’Università comincia a collaborare con una società finanziaria, si sposta da uno stato all’altro per poi trasferirsi a Parigi, dove entra nel mondo della moda. Gira il mondo, assume incarichi sempre più importanti, riceve molte proposte, cambia azienda, fino ad approdare alla direzione del marketing di un’importante società del settore.
Eppure quando ci incontriamo, sente che qualcosa non funziona più.
Sono dei piccoli segnali, la stanchezza e una leggera depressione al mattino prima di andare al lavoro; la sofferenza e il senso di inadeguatezza se qualcosa non è più che perfetto; la mancanza di piacere quando raggiunge i risultati, i risvegli improvvisi nel cuore della notte.
Per Sophie è ora di cominciare un viaggio diverso, non più attraverso i continenti, ma dentro di sé. Nelle prime sedute di coaching ripercorrere le sue scelte lavorative e comincia a chiedersi: “Perché ho scelto questo lavoro? Che cosa mi spinge ad affannarmi così per raggiungere un successo che poi non mi da soddisfazione?”. È un viaggio doloroso e con molti rischi. Il rischio di scoprire che tutte le sue fatiche non sono altro che il desiderio di compiacere, di sentirsi dire brava, di sentirsi sempre all’altezza. “Ma allora qual è la reale Sophie? Qual’è il mio vero talento?”. Il rischio di scoprire che c’è un’altra Sophie che vuole uscire dal copione scritto tanti anni fa e ormai fin troppe volte recitato.
Dopo molte riflessioni, ha preso coraggio, ha deciso di rinunciare al vecchio mondo e si è licenziata fra lo stupore di tutti. Ancora non sa esattamente cosa farà, ma di certo quello che vuole scoprire sono le sue motivazioni profonde, dopo arriverà il lavoro giusto per lei.
“E’ come trovarsi di fronte ad un immenso spazio vuoto….”

Se la capacità d’interpretare i movimenti delle nuvole, il colore di un tramonto o la direzione del vento era un sapere indispensabile ai popoli nomadi, ora sempre più diventano importanti la capacità di scorgere cosa c’è più in là di quello che vediamo nell’immediato.
Sempre più spesso, come specie e come individui, avvertiamo l’urgenza di tornare ad un neo nomadismo, ad una nuova capacità di esplorare, al coraggio di lasciare dietro di se quello che fino ad oggi era familiare.
Ma questo costa fatica: la nostra storia ci ha abituato a prevedere, programmare, a sapere esattamente cosa faremo domani, a limitare, a mettere i confini.
Ignari spesso che sul vocabolario alla parola “confine” segue la parola “confino”.

Essere Nomadi vuol dire smettere di lamentarsi e rischiarsi in un'attività tutta nuova come Giovanni.
Giovanni è un ingegnere-inventore, ai tempi direttore del servizio tecnico di un’importante azienda nel settore dell’elettronica nel Nord Est. Comincia a lavorarci a 27 anni e per i 10 successivi, lui e l’azienda crescono assieme. Parla di quel periodo con molto entusiasmo, descrivendolo come un momento magico e particolarmente creativo. Ma come spesso succede nelle favole ad un certo punto arriva qualche spirito maligno e distrugge il bel gioco: le aziende crescono, passano di mano, cambiano i vertici, cambia l’organizzazione. In questo caso alla creatività un po’ naif che era il motore della vecchia impresa si sostituisce un’organizzazione intelligente, fatta di obiettivi, metodo, procedure e finanza.
E a Giovanni cominciano a chiedere un diverso modo di lavorare e di gestire le persone, molto lontano dai suoi ideali.
Quando incominciamo il percorso di coaching è nella fase della lamentela, della depressione, del come sono sfortunato, “pensare che proprio adesso sto lavorando ad un idea geniale…di cui ora tutti se ne fregano…se solo fossero diversi…”.
La prima domanda, piuttosto dura ma indispensabile per sbloccare la sua energia, è: “Quale vantaggio posso ricavare da questo continuo biasimo?”. Giovanni realizza abbastanza in fretta che continuare così lo inchioda in uno schema indolente e così lavoriamo sulla seconda domanda “Quale scenario, mai immaginato, posso disegnare davanti a me?”, domanda che innesca una fase molto creativa.
Alterna momenti di euforia ad altri in cui si sente scoraggiato, fasi in cui gioca con la sua immaginazione ad altri in cui realisticamente utilizza analisi di mercato. Approda infine ad importante decisione: brevetta l’idea geniale cui stava lavorando, fonda la sua società, e comincia a rimboccarsi le maniche per vendere.
Ora fra i suoi clienti annovera anche la sua vecchia azienda.

Essere nomadi significa essere curiosi, mettere la testa fuori dal guscio, conoscere il diverso, riconoscere sé stessi, fare progetti più grandi, rompere infine il guscio e cominciare a vivere. Ma superare il confine nell’era global-tecnologica, è anche aprirsi allo spazio interiore, concedersi di ampliare i propri orizzonti esistenziali. Essere nomadi allora implica che lo sguardo possa spaziare non solo oltre, ma più che mai dentro di sé.

Essere Nomadi vuol dire accettare di crescere e di avere successo come Andrea.
Nonostante l’aspetto più giovane della sua età, le continue battute, le camicie sgargianti ed un viso sempre in movimento, Andrea ha una rispettabilissima posizione all’interno di un’altrettanto rispettabile società milanese che si occupa di finanza. E’ approdato al mondo dell’economia dopo diverse esperienze, non tutte felici e non sempre conseguenti l’una con l’altra. Ma negli ultimi anni le cose vanno magnificamente bene, piano piano la sua squadra cresce e a lui viene affidato un incarico di grossa responsabilità, che coinvolge molti uomini e notevoli strutture.
Ma dopo l’euforia del primo momento, incredibilmente cominciano ad affiorare difficoltà insospettate: contrasti mai avuti prima con il capo, collaboratori, un tempo amici, ora distanti. Improvvisamente tutti gli chiedono di crescere, di prendere decisioni. Ma lui non sa se è tagliato per questo.
Ci incontriamo quando Andrea entra in crisi perchè i contrasti diventano davvero ingestibili nonostante, a suo dire, “…il mio comportamento sia sempre quello di un tempo…”
Ma forse è proprio questo il punto, il comportamento (e forse l’immagine di sé) non può rimanere lo stesso. Le prime domande sono intorno al suo nuovo ruolo. “Quali responsabilità e competenze richiede la mia nuova posizione? Sono sicuro di volermi impegnare così tanto? Che cosa mi impedisce di prendere decisioni che possono essere impopolari?”
E poi rivediamo le esperienze passate: “C’è una costante nel naufragio dei miei vecchi lavori? Che cosa mi costringe sempre allo stesso cliché, quello dell’eterno simpatico?”. Ed infine: “Che cosa voglio davvero per me stesso?”.
Dopo tanto interrogarsi e discutere, dopo apparenti decisioni smentite dagli atti, Andrea alla fine ha deciso di crescere e come un vero Nomade che si accinge a partire ha bruciato tutte le suppellettili inutili. Si è liberato dalle continue battute e dal vecchio cliché accettando finalmente le nuove responsabilità da adulto maturo.
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lunedì 2 febbraio 2009

Tai chi chuan per lo sviluppo personale










Intervista di Giulia D'Agostino su http://www.pnlpratica.com/blog/intervista-con-luciana-zanon/

GDA: Ciao Luciana, volevo iniziare questa chiacchierata chiedendoti quale tecnica di PNL trovi particolarmente efficace e/o hai usato con maggiore frequenza.
LZ: Senza alcun dubbio, la tecnica che utilizzo di più e che trovo davvero formidabile è il metamodello. Per chi si occupa di coaching penso che sia quasi d’obbligo conoscerla.
Con il meta modello, attraverso le giuste domande e l’ascolto, si riesce ad individuare la struttura del pensiero che si nasconde dietro ad affermazioni che possono apparire ragionevoli se non presti la dovuta attenzione. Non solo, il coachee, proprio grazie al metamodello, riesce a capire meglio il suo problema, a ridimensionarlo o a vederlo da una diversa prospettiva. Può riuscire quindi ad uscire da quella genericità e pervasività che spesso impedisce alle persone di attuare dei cambiamenti nel proprio modo di affrontare il mondo.
GDA: Quali sono i casi o le richieste più frequenti che ritrovi nella tua attività di coaching?
LZ: Io lavoro principalmente nel settore business, sia all’interno delle aziende che con clienti privati. È chiaro quindi che i bisogni che più spesso incontro sono legati alle competenze manageriali. Negli ultimi anni, tuttavia, mi sembra che due temi siano particolarmente “esplosi” : la gestione di situazioni conflittuali (che spesso vengono trattati all’interno di un team coaching) e la gestione dello stress.
GDA: Luciana secondo te quali sono le qualità più importanti in un coach?
LZ: La prima qualità è sicuramente di non aver bisogno del ruolo di coach per dar lustro alla propria persona. Sembrerà una banalità ma credo che la prima qualità sia proprio quella di essere centrati sul cliente, piuttosto che su di sé. Subito dopo arriva la capacità di essere degli ascoltatori sottili, di capire i bisogni che all’altro ancora non sono chiari e soprattutto di non confonderli con i propri. La terza qualità direi è quella di essere molto realisti, capaci cioè di definire degli obiettivi chiari, sfidanti ma raggiungibili, e che soprattutto migliorino la qualità della vita del coachee.
GDA: So che ultimamente ti stai dedicando a seminari nei quali affronti il tema della gestione dello stress attraverso esercizi di Tai Chi, puoi parlarcene? In cosa consistono?
Si, certo. Questi seminari affrontano il tema dello stress da diversi punti di vista: cognitivo (cos’è lo stress, cosa lo produce), mentale (quali sono i pensieri che ci mettono in situazioni di stress, le coazioni a ripetere che ognuno di noi ha e che contro ogni logica di benessere ci costringono in circuiti stressanti) e fisico. Come ben sappiamo lo stress ha sempre delle conseguenze fisiche: dalla semplice tensione alle malattie molto gravi ad esempio legate al sistema cardiologico. Parlare di stress senza tener conto del proprio corpo sarebbe riduttivo. E dunque un punto topico di questi seminari è quello di imparare a considerare il corpo come una fonte di informazioni preziosa, come uno strumento di conoscenza di sé e come una possibilità per migliorare il proprio benessere.
Attraverso il Tai Chi Chuan, abbiamo la possibilità di sviluppare i primi rudimenti di conoscenza e di percezione del proprio corpo.
Il primo step è quello di attivare delle tecniche che permettano di individuare le tensioni presenti in quel momento. Già questi semplici esercizi suscitano molto stupore: quando mai troviamo il tempo di fermarci per ascoltare le nostre spalle, le gambe oppure la schiena?
E quando abbiamo individuato le tensioni, si impara a trovare il modo di scioglierle e di lasciare nuovamente scorrere l’energia vitale o Chi, evitando così che in quella zona si sviluppi la malattia, come la medicina cinese insegna.
Un momento topico è legato alla posizione base del Tai Chi, dietro alla quale possiamo riconoscere uno dei capisaldi della filosofia di questa arte marziale: se vuoi affrontare e sconfiggere il tuo nemico (se vuoi affrontare e superare i momenti di stress) devi avere i piedi ben piantati per terra e la testa collegata con l’universo: solo così potrai avere solidità ed ispirazione. È così impariamo a percepire i nostri piedi, a renderli parte di noi e soprattutto ad ancorarli saldamente al terreno, per poi far scivolare il peso delle nostre preoccupazioni dalle spalle, giù fino ai piedi per scaricarli infine a terra.
Un altro caposaldo è imparare la respirazione profonda. Per i cinesi antichi la fonte dell’energia era localizzata nel nostro basso ventre (Tan Thien) e quindi se vogliamo riattivarla per essere più forti nell’affrontare il nemico dobbiamo imparare ad andarla a prendere attraverso il respiro. Imparare a respirare profondamente da dei benefici immediati: rilassa e nello stesso tempo rinvigorisce, rallenta il battito cardiaco e aumenta la capacità di focalizzazione. Inutile sottolineare i riflessi di questi benefici nelle gestione dello stress come nella vita di tutti i giorni. C’è un proverbio cinese che dice che ognuno di noi viene al mondo con un certo numero di respiri a propria disposizione, finiti i quali, kaput…finisce anche la nostra vita. E dunque se vogliamo vivere più a lungo non ci rimane che economizzare i nostri respiri e il solo modo per farlo è respirare profondamente.
Ed infine, un’altra grande qualità del guerriero di Tai Chi è la flessibilità: se vuoi vincere non ti devi opporre al nemico ma utilizzare la sua forza e ributtargliela contro. Pensiamo a tutte le situazioni conflittuali che ci affliggono e che sono una delle fonti maggiori di stress. Il Tai Chi insegna a non opporsi ma ad essere flessibili e rimandare indietro l’energia dell’avversario. Ci sono degli esercizi particolari, che si chiamano Tui Shou dove ci si esercita proprio in questa flessibilità. Ormai è accettato anche dalla medicina occidentale che lo stato mentale influenza lo stato fisico. Ma è vero anche il contrario, una certa posizione fisica influenza il nostro stato mentale: se imparo ad essere flessibile (e vincitore) di fronte ad un attacco fisico lo sarò anche di fronte a qualsiasi altro attacco.
Del resto anche la PNL considera il legame fra corpo e mente come uno degli elementi fondamentali della comunicazione e della terapia, infatti Erickson fra i suoi strumenti per entrare in relazione con i suoi pazienti utilizzava il rispecchiamento.
GDA: Davvero molto interessante questo accostamento con il Tai Chi. Un’ultima domanda, come pensi evolverà il coaching in Italia in questo momento di crisi che stiamo vivendo, pensi che le aziende percepiscano la necessità di affidarsi a questo tipo di figure professionali?
LZ: Penso che il coaching si svilupperà sempre di più e non solo nelle aziende. Credo che questo sia particolarmente vero nei momenti di crisi come quello che stiamo vedendo (per leggere un articolo su questo argomenti scritto da Luciana Zanon per 7th floor: http://www.7thfloor.it/2008/12/12/corsi-di-pnl-formazione-coaching-aula-videocorsi-in-dvd-e-nuovi-ebooks/). Alcune aziende, le più evolute, investono sul coaching e su tutti gli strumenti che possono aiutare gli individui ad affrontare la complessità. Quelle invece che non investono e si dimostrano cieche di fronte alle sfide, pensando di poter superare questi momenti con i soliti strumenti, forse non sopravviveranno. Continua a leggere!

lunedì 19 gennaio 2009

Navigare nella crisi

Incontro Dario Forti, psicosocioanalista e, tra le altre cose, co-autore con Daniela Patruno di La consulenza al ruolo (edizioni Guerini, 2007) per rinnovare il dialogo che avevamo iniziato un paio di mesi fa, all’inizio dell’autunno, quando quella che già si preannunciava come una crisi difficile era solo agli inizi.

Luciana: Dario, è ormai da qualche mese che “siamo dentro la crisi”. Che cosa la caratterizza, che cosa hai capito, è davvero una crisi quale mai se n’era vista prima una uguale o la paura che ne abbiamo supera le dimensioni reali? Quali domande solleva negli individui e quali risposte sollecita?
Dario: per renderci conto della natura di questa crisi è forse sufficiente misurare quanto la percezione della situazione si sia modificata da quando tu ed io abbiamo avuto la nostra prima conversazione, se non sbaglio meno di due mesi fa. Non dico che le nostre, allora, fossero ancora considerazioni distratte e superficiali; è certo però che il tono di gravità e il senso di urgenza che muovevano allora le mie considerazioni erano ben diversi da quelli che adesso mi obbligano a soppesare i giudizi e a formulare con circospezione eventuali suggerimenti di atteggiamento e di azione…
L: proviamo intanto a dire qualcosa, noi che non siamo né storici né economisti, come le grandi crisi economiche possono influenzare la vita delle organizzazioni.
D. : se ricordi, nella nostra precedente chiacchierata osservavo che il significato effettivo di una crisi dipende fondamentalmente dal vertice spaziale o temporale dal quale la si osserva. Col senno di poi, si può dire che le crisi risultano spesso salutari. A conti fatti (come in tutte le formule colloquiali, anche in questa – ‘a conti fatti’ – si annida una verità scomoda ma reale) le grandi crisi si dimostrano il più delle volte eventi e movimenti rigeneratori nei quali le società sono obbligate a trasformarsi, a trovare nuove strade. Per dirla con le parole degli studiosi della complessità, la crisi corrisponde ad un breakdown, ad un collasso dello status quo che apre la strada ad un salto d’innovazione altrimenti innominabile e impensabile. Volendo fare un discorso più ampio – che non è il nostro – basti pensare alla crisi dell’intero settore automobilistico: è vero che gli analisti lo dicevano da quasi vent’anni, e che aziende più pre-videnti, come la solita Toyota, hanno saputo prendere per tempo strade alternative (penso ai motori con alimentazione più gentile), ma non ci sono dubbi che adesso tutte le case – o almeno quelle che avranno il tempo e il fiato per riuscirci – saranno obbligate a cambiare drasticamente direzione…
L.: parliamo allora di questa crisi, di quella in cui ci troviamo anche noi…
D.: parlavo di punti di vista che danno significati diversi al medesimo evento; è evidente che se della crisi consideriamo l’impatto sulle storie individuali, allora ciò che vediamo sono enormi costi sociali e sofferenze terribili. E soprattutto notiamo l’incapacità delle persone di comprendere in quale effettiva condizione (di prossimità al pericolo) si trovino. È noto l’esempio letterario che ricorre in questi frangenti: l’episodio de La certosa di Parma in cui Fabrizio Del Dongo, il protagonista, viene a trovarsi nel bel mezzo della battaglia di Waterloo, e lì vi si smarrisce… Il problema però è proprio questo: stare all’interno di una crisi è come trovarsi nella nebbia; non si vede nulla e non si sa più da che parte muoversi. Forse ne potremo uscire migliori di come vi siamo entrati, oppure ciò che ci sta capitando potrebbe segnare la rovina nostra o del mondo che ci è caro; non lo sappiamo e tutto ciò necessariamente produce confusione e angoscia. Per contro è certo che in momenti come questi si osserva un’accelerazione del tramonto di modi e comportamenti consolidati, che all’improvviso appaiono inadeguati e ingiustificati…
L.: l’attualità ci offre innumerevoli esempi di questo cambiamento di percezione…
D.: …sì, penso all’automobilista americano che trovava naturale viaggiare su auto che consumavano come camion, o delle nostre piccole schizofrenie quotidiane che ci fanno ritenere normali comportamenti di consumo ad elevata produzione di rifiuti e, al tempo stesso, temere per il buco dell’ozono o commuoverci per gli orsi alla deriva sul pack… La volta scorsa poi parlavamo dei piccoli privilegi delle corporazioni che alla fine accumulano crisi spaventose come quella di Alitalia o dei ‘fannulloni’ su cui il ministro Brunetta ha impostato tutta la sua azione politica; fenomeni che mettono a nudo un pensiero di un mondo stabile, protetto e prevedibile che, nel suo venir meno quasi all’improvviso, ci fa sentire in balia di eventi totalmente al di fuori del nostro controllo. Pensa alle conseguenze umane dei processi di delocalizzazione che spesso colpiscono anche imprese efficienti e lavoratori qualificati (l’esempio recente più assurdamente tragico è quello della Tyssen di Torino). Non ricordo più chi sia stato a paragonare il sentimento diffuso di questa nostra epoca di globalizzazione con quello dei sudditi degli stati del XVII secolo che, a seguito di guerre, trattati o anche solo di matrimoni dinastici, si trovavano a dover subire diversi sistemi di legge, fiscalità o religione…
L.: mi viene in mente che una di queste mattine un bancario ha telefonato alla radio, raccontando come in quest’ultimo periodo vivesse un periodo di grande stress per sentirsi attore egli stesso della crisi di tante famiglie sue clienti. Questa crisi può essere occasione anche per porre una questione morale? Non solo all’interno delle banche ma in qualsiasi altro posto di lavoro… c’è il tema delle disparità retributive e nello stesso tempo delle responsabilità individuali. Questa crisi ci può aiutare a diventare più equi, trasparenti, responsabili? Che cosa può dare alle giovani generazioni?
D.: a rischio di proporre accostamenti impegnativi, direi che questa testimonianza conferma quanto si sa da sempre del senso di colpa di chi ha causato, anche in modo involontario, un disastro (pensa al macchinista che non ha visto un segnale ferroviario, o al responsabile di fabbrica che, per ridurre i costi, ha ridimensionato i programmi sulla sicurezza…); senso di colpa che in certi casi – e la cosa non può che suonare atroce e ‘incomprensibile’ – colpisce anche le vittime stesse della violenza (pensa ai bambini maltrattati o ai sopravvissuti ad uno sterminio), le quali si chiedono: ‘quanto ho contribuito io a ciò che mi è capitato?’, oppure: ‘perché io ce l’ho fatta a sopravvivere?!’; nevrosi traumatiche, le chiamavano i manuali di psicopatologia, dalle quali si rischia di non guarire mai più nel corso della vita…
L. veniamo dunque agli effetti della crisi sulle persone che lavorano nelle organizzazioni…
D.: proprio in questo periodo sto vedendo una persona, responsabile della gestione del personale in un’azienda di un settore al centro della crisi, a sua volta in fortissima crisi personale e di ruolo (il capo intende farla fuori in occasione di una prossima riorganizzazione della direzione). Non è una novità che nei colloqui di counseling (di ‘consulenza al ruolo’, come lo chiamiamo noi psicosocioanalisti) si osserva un ondeggiare continuo tra vissuti persecutori (tutti contro di me: il capo, i colleghi, la cultura aziendale…) e sensi di colpa circa i propri errori o anche solo la mancata comprensione dei segnali iniziali di difficoltà; un ondeggiare che è tipico di momenti di perdita di preesistenti sicurezze. In questo caso, invece, ciò che mi colpisce è l’effetto di marasma, in cui si annebbia ogni capacità di giudizio in una persona che, in altra occasione, avevo conosciuto come consapevole, intelligente e intuitiva.
L.: per cui…
D.: …per cui, ipotizzo che questa è una crisi che sembra attaccare la capacità delle persone di mantenere la percezione della realtà esterna (quali passi sono utili, quali errori vanno assolutamente evitati, quali opzioni sono più preferibili o con maggior probabilità favorevoli ecc.), e soprattutto la percezione di sé, della propria realtà interna; il che, concretamente significa perdita di consapevolezza dei propri principi non negoziabili, dei bisogni irrinunciabili, delle proprie ‘zone d’ombra’, così come delle riserve di energia recuperabili in condizioni estreme… L’effetto psicologico è la paralisi. La volta scorsa ti avevo detto che, più ancora della foto ormai famosa dei broker della Lehman con le scatole degli effetti personali in mano, mi aveva colpito quella in cui si assiepavano in gruppo sotto gli uffici della banca ad aspettare notizie, incapaci di muoversi…
L. se l’effetto è la paralisi, come si riesce allora a lavorare con lucidità e impegno in una fase dove non si vede alcuna prospettiva?

D. per superare la paralisi c’è la necessità di rafforzare la capacità di auto-orientamento: fondamentale diventa la lucidità di saper in quale direzione muoversi; come Teseo nel labirinto, occorre saper leggere la realtà, capire dove si è e quali sono le strade ‘ostruite’, quelle ‘percorribili’, o almeno ‘liberabili’…

L. e per farcela su quale capacità è prioritario lavorare personalmente?
D. : io sono stato educato, prima di tutto in famiglia, poi a scuola e soprattutto da alcuni Maestri a cui va la mia eterna riconoscenza, a quella che, con una certa pomposità, si indica come ‘etica della responsabilità’; quella, per intendersi, che ci obbliga alla consapevolezza dell’impatto delle nostre azioni e che echeggia in massime famose del tipo: ‘non chiederti cosa può fare l’America per te, ma cosa puoi fare tu per l’America’, o ‘non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te stesso’. Massime la cui fresca saggezza si poggia sul principio di ‘reciprocità riflessiva’ che penso – o almeno spero – ci sia di aiuto nella ricerca di ‘strategie di uscita’ dalla crisi attuale ; no, mi correggo: non di uscita, ma di ‘entrata’ in una crisi che, temo, non sarà affatto breve né prevedibile nei suoi tratti ed esiti…
L.: ma, concretamente, cosa si può fare per stare meglio?
D. il rischio più grande (e tuttavia in una certa misura inevitabile) è quello di considerare gli eventi come segni di un ‘destino cinico e baro’, opaco e impenetrabile, cui assoggettarsi fatalisticamente, eventualmente maledicendolo. Come non mai è necessario invece uscire dallo stato di ‘ingenuità primitiva’ (quello che ci ha lasciato in eredità la nostra natura di esseri viventi che fino all’altro ieri vedevano i fulmini come saette scagliate da un dio irascibile) e armarsi dell’intelligenza delle cose che la nostra specie ha saputo sviluppare faticosamente e dolorosamente; ma questo, mi è abbastanza chiaro, è un programma che richiede dosi massicce di sangue freddo e di tenacia.
L. cosa bisogna fare allora per sopravvivere e, auspicabilmente, rinnovarsi?

D.: nelle organizzazioni, ma lo stesso discorso si può fare per chi, come noi due, fa il consulente, la cosa migliore per sopravvivere è tenere bene gli ‘occhi aperti’ (mai perdere la concentrazione!) e ‘navigare a vista’ (evitando scogli, bassi fondali, mine…); per rinnovarsi è poi necessario continuare ad esplorare l'orizzonte (alla ricerca di nuovi passaggi negli stretti e nuove rotte). Fuor di metafora, ‘navigare a vista’ significa uscire da una condizione – ripeto assolutamente comprensibile in situazioni fortemente ansiogene – di ‘ingenuità’ e banalizzazione degli eventi: fare invece attenzione ad ogni passo, muoversi con circospezione, mettere ancora più attenzione nell’analizzare a fondo attese e pretese dei clienti e dei capi, strutturandosi per soddisfarle nel modo più utile. Esplorare l’orizzonte vuol dire individuare spazi liberi, procacciarsi incarichi (non solo accettarli di maggiore o minore buon grado!) e impegni, magari faticosi e rischiosi (che probabilmente altri hanno snobbato per mancanza di coraggio. Poco fa mi chiedevi quali fossero le capacità oggi più importanti: attenzione e ascolto, con cui valorizzare il proprio ruolo e cercare nuove possibilità. Insomma essere umili e propositivi (‘depressione benigna’ la definiva Luigi Pagliarani, il mio maestro e fondatore della psicosocioanalisi): sono consapevole di ‘trovarmi nei guai’, mi rendo conto che non potrò risolvere ogni problema, ma so per certo che farò di tutto per risollevarmi, o almeno per non sprofondare.

L.: come la volta scorsa, ad un certo punto nomini la parola tabù: depressione…

D. sì, perché sostengo che è proprio in situazioni come questa, che indurrebbero a reagire automaticamente con vissuti di persecutività, che dobbiamo sforzarci di rispondere in modo diverso, controintuitivo, ad esempio accettando la ‘dipendenza funzionale’ da capi e clienti, che è meglio sorprendere che subire, e rifiutando invece la ‘dipendenza difensiva’, rancorosa, lamentosa, in fin dei conti autolesionistica. È invece importante mantenersi sempre vigili, darsi obiettivi e programmi, non richiudersi in sé, ma al contrario arricchire e sfruttare le reti di relazione ed imporsi, con autodisciplina, un sistematico scouting delle opportunità.
L.: anche qui, non solo in America, ormai molte aziende accelerano con i tagli. Molti manager vengono licenziati, a volte solo per ridurre le spese. Cosa possono fare questi manager? Che consiglio dare, chi li può aiutare? Negli USA esiste un club dei “manager falliti” on line… a quali bisogni un’iniziativa del genere può rispondere? E ancora, cosa possono fare le aziende per gestire al meglio queste situazioni – ammesso che abbia senso parlarne, al di là delle solite procedure comprendenti soldi e outplacing…
D. non credo si debbano inventare politiche o programmi ad hoc; si tratta invece di generare una diffusa capacità di aiuto e di ‘auto aiuto’: ogni situazione che aumenti la capacità di riflettere è utile e andrebbe sfruttata senza esitazione, direi con ‘utile egoismo’. Checché se ne dica, in azienda non mancano le occasioni per l’apprendimento e la formazione; non penso tanto ai corsi, la cui programmazione segue procedure e rituali forse troppo lenti e burocratici per il tipo di bisogno che le persone avvertono in momenti come questi, quanto – e soprattutto – alla possibilità di trovarsi ad esempio un mentor (i senior al di fuori della mischia e non più così assatanati su obiettivi e carriera non aspettano altro che qualcuno chieda loro qualche consiglio) o di attivare del peer coaching con un collega che viva analoghe preoccupazioni, o collegarsi a qualche social network utile allo scopo di scambiare delle ‘dritte’ professionali (per intenderci, lascerei stare il solito, cazzeggiante, Facebook… Va cioè ricercato tutto ciò che può essere di stimolo all’autoriflessione, alla possibilità di alzare la ‘soglia di attenzione’ su di sé, di supporto ad un progetto di ‘self empowerment’. Se poi la necessità di una guida strutturata e affidabile incalza, si tratta di trovarsi un supervisore, un ‘consulente al ruolo’ – quella persona cui ho fatto prima riferimento ha definito il lavoro che stiamo facendo insieme un investimento su di sé, una necessaria ‘assicurazione sulla (propria) vita (professionale)’ – che, almeno inizialmente, aiuti a ritrovare l’orientamento e a riprendere il controllo della situazione e che poi, quando magari la situazione di crisi sembra superata o almeno arginata, permetta di imparare a lavorare in modo sistematico sulla focalizzazione delle proprie capacità e potenzialità…
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