mercoledì 8 agosto 2007

Entusiasti o sbronzi di lavoro

Tempo di vacanze, spero, anche per la categoria dei workaholic.
Riporto il mio articolo pubblicato sull'ultimo numero di 7th floor, lo trovate anche in: http://www.7thfloor.it/tag/Zanon


Entusiasti o sbronzi di lavoro?

Enrica, 27 anni, vede il suo ragazzo all’incirca ogni 20 giorni. “Ma come, non vivete entrambi a Torino?” “Sì certo, è questo il bello, si fa per dire, viviamo nella stessa città, ma ci frequentiamo come se vivessimo in paesi diversi.”. Lavora da due anni in un’importante società di consulenza, inizia alle nove del mattino e prima delle dieci di sera non riesce ad andarsene dall’ufficio, sabato compreso. Sempre che non sia in viaggio, là deve essere connessa continuamente, dalle sette a mezzanotte.
“Sono fortunata perché il mio ufficio è all’interno di un grosso centro commerciale, così almeno riesco a fare la spesa durante la pausa. Non vado mai né in palestra né dal parrucchiere, la domenica sono così stanca che non mi va di vedere nessuno, alle volte neanche il mio fidanzato.”. “Ma lui cosa dice, non si lamenta?”. “All’inizio no, sai un lavoro prestigioso, importante, era molto comprensivo, mi sosteneva. Ora credo si stia stufando, ogni tanto mi da degli aut aut, ma io non riesco a decidermi. Non posso smettere, non ora, il lavoro che faccio è molto pressante ma anche molto eccitante. Ho solo 27 anni e gestisco clienti importanti, lavoro con persone stimolanti, mi danno molte responsabilità, anche loro con i miei stessi ritmi. Da quando ho iniziato questo lavoro sono dimagrita di cinque chili, ma in fondo non mi dispiace molto.”.
Quello di Enrica è il tipico racconto di chi viene definito workaholic: più di 70 ore settimanali, grosse responsabilità, mobilità elevata, disponibilità continua. Eppure nonostante la fatica e lo stress, gli aggettivi che spesso si utilizzano per definire il lavoro sono eccitante, entusiasmante, appassionante. L’autorealizzazione, uno dei bisogni fondamentali per la felicità degli individui, si materializza nel lavoro attraverso il raggiungimento di risultati sempre più estremi. Trovare nel lavoro il gusto di esprimere il proprio talento è una fortuna rara, motiva, da carica e fa sentire importanti. E quindi dove sta il problema?
“Quando riesco a concludere un contratto dopo settimane di trattative estenuanti, provo un piacere così forte che lo posso paragonare solo all’orgasmo sessuale. Anzi forse ancora più eccitante.” Thierry, 40 anni, avvocato worldwide in un’importante banca francese, si occupa di contratti internazionali. “Le riunioni per chiudere i contratti vanno avanti fino a quando non si chiude, spesso anche per più di 24 ore, notte compresa; ogni tanto si fa una pausa per un caffè e per andare in bagno a lavarsi la faccia ma nessuno si sognerebbe di andarsene prima del raggiungimento di un accordo. Eppure dopo queste maratone l’euforia è al massimo, nonostante il sonno perduto.”.
Anche Thierry però come Enrica racconta che quando si ferma si sente svuotato e non ha più energia per i tre figli, per la moglie, da mesi non vede gli amici. Quando torna a casa ha solo bisogno di dormire e ricaricare le pile prima di ripartire. Si sente irritabile e spossato, sensazioni che scompaiono al rientro in ufficio.
Dov’è allora il limite fra il piacere di lavorare, l’autorealizzazione appunto, e l’eccitazione maniacale che esalta ma non lascia spazio ed energia per nient’altro?
Molte ricerche evidenziano come la dipendenza da lavoro stia diventando un vero problema sociale e sanitario. I conflitti familiari, addirittura le separazioni e i divorzi, sono in aumento fra coloro che super lavorano. Molte ore di lavoro per lunghi periodi incrementano i livelli di stress, causando depressioni, malattie cardiache, disturbi alimentari e del sonno.
E dunque come fare a capire se si è vittima di dipendenza da lavoro o se semplicemente si sta lavorando con entusiasmo? Qual è l’unità di misura che permette di capire quando si supera il limite? Il numero delle ore settimanali, i segnali di stress, le difficoltà nei rapporti familiari e sociali? E quali sono le strategie per venirne fuori, per disintossicarsi?
Giuseppe, 50 anni, direttore di divisione di una multinazionale: “Io non mi considero un workaholic, lavoro più di 60 ore la settimana, ma non penso di essere dipendente da lavoro. Certo se lo chiedi a mia moglie forse lei non è molto d’accordo. Per me lavorare è molto coinvolgente, se hai responsabilità nei confronti dei tuoi uomini, se spetta a te prendere le decisioni, non puoi che sentirti coinvolto. Cosa faccio per accorgermi se sono al limite? Per me il numero delle ore non è importante, anche perché lavoro fuori casa e quindi non tolgo tempo alla famiglia. Sono più significativi altri segnali: quando mi accorgo di essere intollerante e litigioso allora mi rendo conto che devo darci un taglio. Io sono un ottimista di natura ma quando comincio a vedere solo problemi capisco che qualcosa non va. Un altro segnale è il sonno, nei periodi di super lavoro dormo molto di più, alle dieci di sera mi addormento di botto e non mi sveglia nessuno. Strategie? Quello che mi serve di più è aumentare l’attività fisica, vado a correre e mi scarico. E poi mi chiudo nel mio ufficio, cerco un po’ di solitudine, ho bisogno di starmene per conto mio”.
Ma cogliere i campanelli d’allarme, come nelle vere dipendenze, non è facile. Non ci si rende conto di esagerare, si vive continuamente con un brivido lungo la schiena che fa sentire vitali ed eroici. Anche se ci si lamenta del super lavoro in verità lo si fa con autocompiacimento senza provare un reale disagio, guardando con boria i poveri mortali dai ritmi comuni.
È quello che racconta Monica, psicologa, 33 anni, ricercatrice in università. Ora è incinta e vede la sua situazione di ex-workaholic con un po’ di distanza, si definisce una “disintossicata a rischio”. “Quando ci sei dentro, non ti rendi conto di quello che succede: ti senti sotto pressione, ma lo vivi come uno stimolo continuo, ti senti il padrone del mondo. L’unico disagio ogni tanto è la paura di non essere all’altezza, di non farcela. Campanelli d’allarme certo che ci sono: io avevo nausee, tensioni muscolari fortissime, insonnia. Però non bastano, continui lo stesso, ti senti troppo figo per smettere. Se qualcuno ti dice che stai esagerando ti senti incompresa. Ti costruisci una gabbia, non solo psicologica, ma in un delirio di attivismo metti in piedi un sacco di impegni e poi per non deludere nessuno non puoi più dire di no.”.
E dunque incapacità di ascoltare sé stessi, anche se i segnali sono netti ed evidenti. Non ci si può fermare, nessuna focalizzazione sui propri desideri, l’importante è il fare continuo, alle volte senza una direzione precisa.
“Come se ne esce? In realtà non c’è un momento vero e proprio in cui te ne accorgi, né una strategia ben precisa, è piuttosto un processo di consapevolezza. Per me è iniziata con una forte delusione: lavoravo da mesi, 12 ore al giorno weekend compresi ad un progetto appassionante: trascuravo tutto e tutti, viaggiavo senza vedere le città, ero totalmente identificata nel lavoro. Poi per un soffio, questione di mezzo punto, il progetto non è stato accettato: mi è crollato il mondo addosso, ero depressa, piangevo continuamente, niente aveva più senso. Mio marito era a dir poco perplesso e ha cominciato a mandarmi dei segnali forti, a dirmi che io nella coppia non c’ero più. Da lì è cominciato il mio ripensamento, ma non avviene in modo indolore. Cominci a dire dei no, ma lo fai con tristezza perché pensi sempre di perdere delle opportunità. Perfino adesso che mi sembra di esserne fuori, ogni tanto mi capita di vivere con un certo disagio il fatto di non essere impegnata al 100%.”.

Storie diverse, in comune una forte passione per il lavoro, passione che ad un certo punto si trasforma in coazione a ripetere. Forse questo è il confine fra entusiasmo e dipendenza. Non poter più gustare un pomeriggio di ozio, non riuscire a fermarsi e sentire il fresco in giardino, così solo per rimanere con gli occhi al cielo, incantati a guardare la luna. Continua a leggere!

N-outing

Tempo di vacanze anche per i manager laboriosi.

Vi segnalo un bellissimo articolo di Roberta Casasole per una terapia disintossicante. Lo trovate a questo indirizzo



http://www.7thfloor.it/2007/07/07/ Continua a leggere!

domenica 5 agosto 2007

Caldo africano: i consigli degli esperti

Esistono molteplici ragioni per cui i bianchi vengono sfottuti dagli africani quando arrivano nel continente nero. Una delle principali è certamente il solerte attivismo che esportiamo in terra d’Africa.
Il nostro punto di vista europeo prevede che la giornata si svolga in un ritmo fluido ed ordinato di attività debitamente programmate e che ricalchi, più o meno, lo schema domestico.
Ci si alza alle 8, colazione prolungata (visto che siamo in vacanza possiamo permetterci di godere più a lungo del lussureggiante giardino), breve toilette e verso nove e mezzo, dieci, equippaggiati di tutto punto, siamo pronti per visite, escursioni e sopralluoghi, o per i migliori fra noi, per le attività benefiche nei villaggi sperduti nella savana.
Ci si da da fare fin verso l’una, una e mezzo, pranzo leggero (si sa, col caldo africano…) e poi pronti a ripartire di nuovo.
E già qua possiamo sottolineare qualche piccola differenza.
Intanto la colazione; non tutti gli africani hanno questa usanza la mattina appena alzati
; le abitudini alimentari a dir la verità non c’entrano molto, il più delle volte è che non c’è proprio niente da mangiare per colazione e nemmeno un giardino lussureggiante da potersi godere (questi per la maggioranza esistono solo negli alberghi o nelle case dei bianchi).
Comunque, passato l’orario della colazione anche gli africani si danno da fare, a modo loro s’intende, in attività di varia natura che permettano loro di sbarcare il lunario fin verso l’una, una e mezzo.
Per quel che riguarda il pranzo si potrebbe ripetere quanto già detto per la colazione. Salvo che gli africani, potendo s’intende, caldo o non caldo non si preoccupano affatto di fare pranzi leggeri: se c’è da mangiare si mangia a più non posso che tanto stasera non si sa cosa succede.
Ma è il dopo pranzo che segna la vera differenza fra popolo bianco e popolo nero.
Dopo un breve riposo, il bianco si risistema, guarda l’orario, estrae una salvietta in bustina, si da un’ultima rinfrescata e risale fiducioso sulla sua gip, pronto per la sua agenda pomeridiana.
Il nero, pur non disponendo di giardini lussureggianti, riesce sempre a trovare un bell’albero frondoso sotto cui distendersi per contemplare l’orizzonte infinito.
Il bianco sfodera la cartina geografica, consulta il GPS, discute con i suoi compagni, pianifica il pomeriggio.
Il nero bofonchia qualcosa ad altri neri che hanno avuto la sua stessa idea, si sdraia più comodamente, da un calcio al cane rognoso che gli contende il fresco dell’ombra, ridacchia masticando una strana radice mentre lo sguardo si fa sempre più sottile e perso nell’orrizzonte.
Il bianco guarda il nero pensando: “…ecco com’è che il continente africano non riesce ad evolvere, tutti ammassati sotto un albero a poltrire…”
Il nero (e il cane) guarda il bianco pensando: “…vediamo quanto tempo c’impiega il burro europeo a squagliarsi sotto il sole africano…”
I due sguardi si incrociano, ma solo per un attimo, non c’è molto tempo, il bianco operoso riparte, forse un po’ triste per la testimonianza di cotanta indolenza.
Lungo la strada altri alberi frondosi, altri grappoli di neri semi-addormentati, altri cani spalmati sul nudo terreno. Fa caldo, è naturale siamo in Africa, comunque per fortuna oggi è più secco, la prossima tappa è il grande baobab e poi dopo è previsto l’arrivo all’isola delle conchiglie.
Ma verso le quattro e mezzo il caldo diventa davvero insopportabile, il bianco comincia a vedere strane lucine. Si concentra sulla piantina e stringe con foga la bollente portiera della sua gip. Continua a parlare con i suoi compagni, ma ogni tanto sente come se la testa viaggiasse da sola.
Alle quattro e tre quarti il bianco sviene e si sgonfia come un soufflè sul grembo accogliente della signora sedutagli accanto.
Ferma la macchina, passa la borraccia che gli rinfresco la testa, presto sdraialo e alzagli le gambe. Aspetta portiamolo più avanti, là c’è un bell’albero per dargli riparo.
Da sotto l’albero due neri vocianti arrivano di corsa, passano un telo sotto il corpo del bianco e veloci lo portano all’ombra. Tutto il gruppo di neri ora è in piedi e lo guarda, discutono a gran voce fra loro, si danno della gran pacche l’uno con l’altro, salutano con sorrisi e rassicurazioni i compagni spaventati che arrancano nella calura.
Il bianco finalmente riapre prima un occhio e poi l’altro. Un gran mal di testa, ma qualcuno gli passa un tè alla menta, inebetito sorride, lo prende, il bicchiere è un po’ sporco, con coraggio lo accosta alla bocca, il primo sorso è dolce e saporito, il secondo è ancora più buono, ottimo da assaporare in questo caldo pomeriggio africano. Continua a leggere!

giovedì 2 agosto 2007

Ma come…un libro per imparare a pisolare?

“Ma come…un libro per imparare a pisolare?” mi avrebbe detto mio nonno con aria incredula, “davvero hanno scritto un libro per imparare come fare un pisolo? Non basta mettersi giù quando uno sente l’abbiocco arrivare?”. Scuotendo la testa avrebbe sicuramente pensato, - che assurdità, questi devono essere davvero un po’ tocchi…-.
Eppure è così, è uscito questo bel libricino di Frédéric Ploton, “Manuale di siestologia”,ed. Castelvecchi, che aiuta gli aspiranti siestatori a perfezionarsi in quest’arte che sembra essere andata dimenticata. O meglio che non è stata dimenticata per niente ma che nell’epoca dell’illusione efficientista viene considerata una perdita di tempo, un’attività da pigroni, totalmente in disaccordo con lo spirito del lavoro e della produttività.
Eppure quanti di noi non hanno mai avuto la tentazione, assecondata dai più coraggiosi, di chiudere gli occhi e appisolarsi per un attimo, durante una riunione tediosa. Quanti durante un’improvvido appuntamento fissato proprio alle due del pomeriggio, hanno dovuto fare sforzi disumani per non sbadigliare in faccia al proprio cliente?
Ammettiamolo dunque, il pisolo è un bisogno fondamentale, ma per legittimare questa esigenza abbiamo bisogno di Ploton che, dati alla mano, ce ne dimostri la scientificità.
È come se, per non sentirci in colpa, dovessimo per forza trovare qualche bella teoria alla moda che ci permetta di farlo.
Ad esempio nei corsi di chi quong che spesso frequento, c’è questa meditazione che si fa dopo pranzo chiamata sleeping meditation; in cosa consiste? Tutti sdraiati per terra, possibilmente con cuscino e copertina, il maestro cinese che con voce serena e monocorde ti spiega la teoria dello yin e dello yang abbinata al sistema binario, yin corrisponde a 0, yang corrisponde a 1, quando senti 0 inspiri, quando senti 1 espiri (o viceversa, non mi ricordo bene). E poi, in cinese naturalmente, comincia a contare: 0,1,0,1,0,1,0,1 ecc.ecc.
In capo a qualche minuto tutti, ma proprio tutti, si sono abbioccati. Pardon…sono entrati in meditazione!. Alcuni più bravi degli altri, riescono a meditare così profondamente (lo capisci dal ronfo sonoro che emettono) che, dopo i venti minuti regolamentari della meditazione, non riescono a ritornare nel mondo dei non meditanti.
Al termine il maestro sorridente ti chiedi come ti senti, ristorato e fresco non è vero?, tutto merito di questa meditazione particolare. Continua a leggere!