mercoledì 3 settembre 2008

Il talento (o la determinazione) di Chagall (2)

Ridecidere il proprio copione professionale

Nella bella mostra su Marc Chagall organizzata a Roma la primavera 2007, oltre ai quadri, qua e là erano esposti dei brani autobiografici. Alcuni davvero commoventi:

Un bel giorno (ma tutti i giorni sono belli) mentre mia madre stava mettendo il pane nel forno, mi feci accosto a lei che teneva la paletta e afferrandola per il gomito infarinato le dissi: “ Mamma vorrei fare il pittore. È finita, non posso più fare il commesso né il contabile….Lo vedi da te stessa, mamma, sono forse un uomo come gli altri? Di che cosa sono capace? Vorrei fare il pittore. Salvami mamma. Vieni con me. Andiamo, andiamo! C’è un posto in città; se mi accettano e se concludo i corsi, sarò un artista. Ne sarei così felice!”
“Cosa? Un pittore? Sei pazzo, tu. Lasciami mettere il pane in forno: non mi seccare. Ho il pane da fare….” alla fine, è deciso. Andremo dal signor Pen. E se egli riconosce che ho del talento, allora ci si penserà. Ma in caso contrario….
(Sarò pittore lo stesso, pensavo tra di me, ma per conto mio).
Marc Chagall, 1931

Commovente che un povero bambino ignorante a Vitebsk, un piccolo paese sperduto nella Russia di inizio secolo, riconosca con tanta chiarezza il suo talento prepotente e con determinazione, a dispetto di tutto e di tutti, decida che comunque lui sarà un pittore. Un pittore! e dove ne avrà mai sentito parlare (avrà pensato la madre), in quel paese di contadini e di venditori di aringhe?

Riconoscere e coltivare il proprio talento è un tema che riguarda ognuno di noi e non soltanto all’inizio della nostra attività lavorativa. Il nostro non è più il tempo in cui si può decidere la propria professione una volta per tutte. Ora nell’epoca del cambiamento continuo, continuamente siamo obbligati a ridefinire le nostre scelte.
Ci troviamo a ridecidere del nostro lavoro, perché in aziende in continuo movimento anche i ruoli manageriali si trasformano per star dietro al mercato e alle varie riorganizzazioni.
Oppure perché siamo stufi, perché quello che abbiamo fatto fino a ieri non risponde più ai nostri desideri, o forse non vi aveva mai corrisposto, solo che noi, tappandoci occhi e naso, ci siamo adattati ma ora non lo sopportiamo più.
O ancora perché nelle fusioni aziendali siamo stati spostati come dei pezzi di lego e ci siamo resi conto che in fondo siamo soltanto dei numeri e adesso non ci vogliamo più stare.
O più semplicemente perché, con il passare degli anni, vorremo coltivare quei sogni che per tanti anni sono stati sigillati in fondo al cassetto e adesso continuano a premere pretendendo di uscire.
Così per motivi diversi e in particolari momenti critici (e salutari) ci troviamo a domandarci quanto il lavoro attuale corrisponda al nostro talento naturale, o quanto piuttosto lo soffochi.

Ma quali strumenti abbiamo per riconoscere il nostro talento? E quanto siamo disposti a fare per seguire le nostre inclinazioni? Non a tutti il talento si presenta chiaro e prepotente come al piccolo Marc e non tutti sono disposti a coltivarlo con passione e determinazione come fece il pittore.
A volte, se il talento è sepolto troppo in profondità non riusciamo a ritrovarlo; e così ci si convince di non aver poi niente di così singolare che valga la pena di essere coltivato e ci adattiamo ad un lavoro banale, tanto a ben pensare un lavoro vale l’altro.
O non abbiamo il coraggio di proporci, di proporre le nostre idee o anche solo di sentirci all’altezza di un ruolo di responsabilità che l’azienda ci può offrire.
Oppure al contrario ci sentiamo così speciali che continuiamo ad alimentare magnifici sogni, guardandoci bene dal fare qualcosa per realizzarli veramente. Così ci sono persone che passano la vita ad aspettare, disprezzando il proprio lavoro e pensando che il loro sogno, non si sa come, prima o poi si realizzerà. O invece chi passa da un’idea all’altra, da un errore all’altro rincorrendo sogni irrealizzabili.

E allora come fare per realizzare il nostro talento? E per distinguere quando il sogno è davvero una possibilità di crescita e non invece un modo come un altro per tenerci bloccati nel nostro copione?
Eric Berne, padre fondatore dell’Analisi Transazionale parlò per la prima volta di copione di vita nel 1972: “il copione è un piano di vita che si basa su di una decisione presa durante l'infanzia, rinforzata dai genitori, giustificata dagli avvenimenti successivi, e che culmina in una scelta decisiva".
Tremendo! Ognuno di noi ha scritto il proprio copione di vita e quindi il proprio copione professionale, durante l’infanzia e tutti gli avvenimenti che seguono non sono altro che conferme delle decisioni già prese. E se questo è vero, noi non siamo che attori che continuano inconsapevolmente a recitare la parte di un copione scritto molti anni fa.
Berne parlò di copioni vincenti, come probabilmente fu quello di Chagall: vincenti non perché si vinca qualcosa, ma perché la scelta decisiva, come per il piccolo Marc, fu quella di realizzare davvero se stesso.
Ma Berne parlò anche di copioni banali o perdenti dove la decisione è quella o di non emergere mai (adattandosi ad un lavoro banale) o peggio ancora che tanto sarà un fallimento (facendo di tutto per dimostrare che è vero).
Così nelle aziende ho incontrato tante persone che continuano a recitare vecchi copioni senza capire il perché. Chi come Giorgio, pur avendo raggiunto una posizione di grande rispetto, continua ad arrabbiarsi con tutto e con tutti, e proprio nei momenti cruciali trova il modo di boicottare con la sua rabbia una carriera sempre più in salita. Come Marco che finalmente ha raggiunto dopo anni di impegno il ruolo di direttore e proprio ora non si sente all’altezza così che, per paura di scontentare i suoi collaboratori, non riesce a prendere decisioni e a guadagnarsi la loro fiducia. Come Cecilia che ha rinunciato all’offerta di una posizione a cui aspirava da anni perché proprio all’ultimo è stata colta da una crisi di ansia che le ha fatto dire di no.

I momenti di disagio o frustrazione professionale, le domande che ci poniamo riguardo al nostro talento, possono essere il segno che il nostro copione, scritto tanti anni fa, forse ormai ci sta un po’ stretto e ora sentiamo il bisogno di prendere delle decisioni più attuali e più vere. Certo non è facile, si tratta di riconoscere le nostre decisioni di un tempo, di distinguere fra quelle che ci possono essere utili e quelle che invece ormai non ci servono più. Capirlo razionalmente non basta: Giorgio, Marco e Cecilia sanno cosa non va, riescono a fare un’analisi della loro situazione, eppure non basta, bisogna scendere più in profondità. Un buon aiuto arriva dal counseling, un percorso che insegna ad ascoltare il dialogo interno, a riconoscere le voci che bloccano impedendo la trasformazione e la realizzazione del nostro talento. In fondo si tratta di imparare ad ascoltarsi con attenzione e in profondità, senza raccontarsi bugie, come Chagall tanti anni fa. Continua a leggere!

mercoledì 25 giugno 2008


ABOUT STRESS/ RIFLESSIONI SULLO STRESS

Piccolo test. Quanti fra voi hanno visto il film “Il grande silenzio” e quanti, fra questi pochi, sono riusciti a vederlo per più di un quarto d’ora consecutivo, senza agitarsi nella poltrona o senza fare qualche battuta nervosa sul fatto che nonostante il passare (lento) del tempo nulla succede sullo schermo (a parte ovviamente la vita di tutti i giorni dei monaci)?
Certo non lo possiamo considerare un test per capire quanto siamo stressati, ma è certamente un segno del nostro tempo, dove tutto è azione, e possibilmente azione veloce.
Ma daiiii.. che cos’è questo stress, io se non sono sotto pressione non riesco a concludere nulla, per me lo stress è adrenalina. La lentezza mi esaspera, se tutto non gira ad un ritmo vorticoso non riesco a quagliare…
Ecco appunto che cos’è lo stress? Spesso i ritmi vorticosi sono molto eccitanti, caricano fanno sentire vive e importanti le persone. Ma se i ritmi incalzanti diventano la norma, quello che succede è che ci si ritrova stressati senza neppure accorgersene.
E allora come faccio a rendermene conto prima che sia troppo tardi? Ad esempio a me succede di svegliarmi di colpo il mattino presto e non riuscire più ad addormentarmi, oppure mi prende un’agitazione convulsa e tanto da non riuscire stare fermo un minuto….
E allora fermati e prova a sentirti, ad ascoltare cosa ti succede senza esserne travolto.
Corpo e mente ci mandano mille segnali ma noi non siamo abituati ad ascoltarli, ad ascoltarci. Prima sono solo piccole tensioni muscolari, preoccupazioni, pensieri ricorrenti, difficoltà ad addormentarsi, disturbi dell’appettito. Se non li riconosciamo si trasformano in ansia, paura, gastrite, insonnia, colpo della strega, colite, tachicardia e altro ancora (non continuo perché già immagino le vostre dita incrociate impegnate a far gli scongiuri!).
E dunque la prima cosa è imparare a conoscersi, ad ascoltare il proprio corpo, i piedi, le gambe, la pancia, la schiena. A riconoscere i segnali deboli, ad allentare le piccole tensioni che si creano nelle situazioni di stress.
Nella vita di tutti i giorni ci accorgiamo del nostro corpo solo quando ci da fastidio, ci fa male. Raramente lo percepiamo come fonte di energia e possibile strumento di conoscenza, di apprendimento e di consapevolezza di sé. Ecco questo è un primo passo verso il riconoscimento e la trasformazione dello stress.

Altro piccolo test. Quanti fra voi si ricordano il proprio bla-bla-bla interiore? Chi di voi riesce a ricostruire cosa si dice mentalmente nei momenti di stress?
In che senso cosa mi dico mentalmente? Quando sono sotto stress, sono occupato a risolvere il problema, altro che a fare discorsi fra me e me…!
Tutti noi continuamente produciamo pensieri, pensieri che ci condizionano la vita e l’agire quotidiano. Ma pochi ne sono consapevoli, siamo concentrati nel fare e non ci accorgiamo dei nostri pensieri. E nel momento dello stress di solito non ci accorgiamo di tutte le frasi contradditorie che ci diciamo, di tutti i pensieri critici, verso noi stessi o verso il mondo che ci circonda. Sono pensieri da bambini spaventati, di ribellione e di sottomissione nello stesso momento, sono pensieri che ci inchiodano e alimentano il circolo vizioso dell’ansia.
Bloccare il bla-bla interiore e riconoscere i propri pensieri è il primo passo per non esserne succubi. Dopo di che possiamo attivare pensieri più realistici, più conformi al momento più orientati alla risoluzione dei problemi. Insomma pensieri più positivi ed adulti.
Un aiuto può venire dal nostro respiro. I cinesi dicono che ognuno di noi ha a propria disposizione un tot di respiri sul suo conto in banca, una volta esauriti…kaputt… non c’è più niente da fare. E allora conviene imparare a respirare, respirare lentamente, far arrivare il giusto ossigeno al cervello per farlo funzionare meglio e cominciare a sfrondare la babele dei pensieri contraddittori che genera confusione.

Si certo, hai un bel dire di imparare a respirare per gestire i propri pensieri! Ma come faccio, quando i pensieri riguardano un futuro imprevedibile a reggere l’angoscia dell’incertezza?
Viviamo in un epoca in cui tutto è possibile, nel bene e nel male (anche se è su questa parte che ci concentriamo di più) e questo non fa che aumentare lo stress. Essere padroni del proprio futuro purtroppo non può più voler dire essere certi di quello che ci accadrà. Questo è sempre stato vero ma lo è maggiormente in quest’epoca di cambiamenti impetuosi. Essere padroni del proprio futuro oggi vuol dire essere disposti a cambiare continuamente non nascondendosi i dati della realtà esterna, anche quelli che non ci piacciono. E nello stesso tempo avendo ben chiari i propri desideri, le proprie inclinazioni e le proprie priorità. Anche in questo caso, conoscersi ed ascoltarsi è di vitale importanza per sopravvivere. Siamo come tante piccole torre di Pisa, fino a quando l’asse che passa per il suo baricentro, perpendicolare alla terra, ricade entro l’area di base, la torre si regge. Ma non appena la pendenza farà sì che si sposti all’esterno della base la povera torre crollerà miseramente. Così noi uomini e donne della nostra epoca fino a quando manteniamo il locus of control al nostro interno possiamo, sostenere i cambiamenti tumultuosi senza esserne sopraffatti. Quando invece si sposta all’esterno, ci sentiamo continumente in balia delle decisioni altrui, non possiamo che sentirci come le foglie di Ungaretti sugli alberi in autunno. E come la torre di Pisa non possiamo reggere.

E con l’aggressività? Con l’aggressività che ogni giorno capi, clienti, collaboratori, colleghi ti scaricano addosso come la mettiamo?
C’è un piccola storia zen, che racconta di un tipo che viene continuamente insultato e denigrato e ad ogni miseria che gli viene rivolta risponde con “e allora?”, lasciandosi scivolare addosso ogni genere di maldicenze….
Eh già, vabbè respirare…, ma non pretenderai che adesso diventi anche zen…
Vedi tu, puoi anche non diventarlo. Ma se continuerai ad essere continuamente in presa diretta, come un cambio automatico, di certo seguiterai ad arrabbiarti e a mettere sotto pressione le tue coronarie. Le arti marziali, che sfruttano la forza del nemico anziché contrapporsi ad essa, ci insegnano molto a questo proposito. Ti faccio una piccola citazione da Jou Tsung Hwa “Il Tao del Tai-chi chuan” ed. Ubaldini: “ Prendiamo ad esempio gli attacchi verbali che incontriamo giorno dopo giorno. Se qualcuno ci critica o ci fa un’osservazione sleale o denigratoria, potremo reagire in molti modi. Se rispondiamo alla resistenza con la resistenza, attaccando l’altro e criticandolo, il conflitto sarà l’unica conseguenza: ci alteriamo senza risolvere nulla. Se, in alternativa, ci chiudiamo spaventati davanti all’affermazione dell’altra persona, e pensiamo che il suo commento debba essere accettato, ci alteriamo nuovamente, perché ci offendiamo e ci sentiamo frustrati. I taoisti, invece, forniscono un’alternativa all’attacco completo o alla ritirata totale. La filosofia dello “Yang dentro lo Yin” ci insegnerà a diventare attentamente consapevoli di ciò che è stato detto, considerando il suo significato e agendo si conseguenza. Smentiremo l’affermazione, se è falsa, o impareremo da essa se è vera. Se si possiede questa comprensione, si potrà realizzare il controllo sia di se stessi sia delle proprie reazioni”.

Ma cosa può fare un’azienda per riparare allo stress se è essa stessa a produrlo imponendo ritmi logoranti, cambiamenti repentini e rapporti personali all’insegna dell’aggressività?
Qualcosa può fare, intanto riconoscere seriamente che lo stress fa male, al benessere delle persone e del business. E dunque che è meglio fermarsi e ragionare anziché correre all’impazzata. E poi può attrezzarsi, attrezzando le proprie persone a conoscersi meglio, a sapere che per gestire lo stress occorre usare la mente, il corpo, il respiro e le emozioni.
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domenica 27 aprile 2008

Intervista sulla felicità


Incontro Giorgio Piccinino, autore de “Il piacere di lavorare”, per parlare di felicità e lavoro. Giorgio, psicoterapeuta del Centro Berne di Milano, si occupa da anni di comportamento organizzativo in aziende pubbliche e private.

Allora Giorgio, cominciamo intanto con una domanda facile: cosa intendi tu con la parola felicità?L’etimologia riconduce il termine felicità all’antica radice “dhe“ che significa fecondo, nutriente e produttivo. Fertilità, femminile, feto sono tutte parole che derivano dalla stessa radice e rimandano allo stesso significato di fertilità e nutrimento. Ho sempre pensato alla felicità come a un nutrimento, a qualcosa che alimenta l’energia vitale, che ci dà voglia di fare, insomma la nostra benzina. Ma è anche il premio che riceviamo quando realizziamo le nostre pulsioni di base di sicurezza, attaccamento/amore, conoscenza/ evoluzione ed auto realizzazione.
Puoi spiegare meglio?Beh…noi esseri umani viviamo alimentati da una energia che ci spinge a sopravvivere, a riprodurci, a crescere ed essere diversi dagli altri e tutte le volte che questi orientamenti vengono realizzati proviamo forti sensazioni interiori di gioia e felicità che diventano il nutrimento per nuove azioni finalizzate ad un altro successivo soddisfacimento.Il successo nella soddisfazione dei bisogni è per la natura umana fonte di gioia e ha come conseguenza una forte motivazione a proseguire nella ricerca della felicità nelle stesse aree, che sono poi quelle necessarie alla sopravvivenza della specie che l’evoluzione ha selezionato in migliaia di anni.
Intendi dire che la felicità aiuta la nostra specie a sopravvivere?
È così. L’insuccesso dei comportamenti volti a soddisfare i bisogni primari, al contrario, è associato a emozioni-sentinella che ci avvertono che stiamo fallendo o che è in pericolo la nostra sopravvivenza. Le emozioni di paura, rabbia e tristezza (che sono le emozioni di base assieme alla gioia) sono i segnali che il genere umano ha in dotazione per sentire immediatamente, prima ancora che razionalmente, che la sua vita sta andando in direzioni negative per la sopravvivenza. Per i bambini è evidente: gioiscono se sono amati, se sono nutriti quando sono affamati, se scoprono qualcosa di nuovo, se riescono in qualcosa, se sono riconosciuti come individui. Al contrario piangono, si spaventano o si arrabbiano se sono trattati male, se sono lasciati soli e se sono bloccati nei movimenti, e nessuno glielo insegna, in tutte le parti del mondo.La felicità come premio e l’infelicità come deterrente sono fondamentali per orientare i nostri comportamenti poiché a differenza degli animali, noi esseri umani abbiamo lasciato, nel corso dell’evoluzione, gran parte dei comportamenti istintivi, avevamo bisogno di emozioni forti per distinguere ciò che è bene o male per l’individuo e la specie. In fondo si tratta di mantenere ciò che madre natura ci ha lasciato in dote alla nascita, sappiamo benissimo, se ascoltiamo le nostre emozioni, cosa ci fa bene e cosa ci fa male.Ok, dunque la felicità come segnale che devo andare avanti così, che il comportamento adottato è buono per me. Ma è possibile essere felice all’interno di un’organizzazione? Come può un individuo ricercare la propria felicità laddove esistono ruoli talmente definiti e precisi da non lasciare spazio alla creatività personale?Dipende molto se siamo la persona giusta al posto giusto e se individuiamo nel lavoro la possibilità di soddisfare i nostri bisogni profondi. Per me il lavoro, inteso come l’occupazione con cui gli esseri umani realizzano insieme la sopravvivenza e l’evoluzione della specie, è uno dei luoghi in cui è possibile soddisfare soprattutto i bisogni di sopravvivenza, di auto realizzazione e di crescita, forse un po’ meno il bisogno di appartenenza, ma conosco molte persone che non cambierebbero mai lavoro solo per il fatto che vi si trovano bene con i loro colleghi. Non basta ovviamente un lavoro materialmente e psicologicamente rassicurante, abbiamo in ogni caso bisogno di trovare, almeno in parte, soddisfatti i nostri orientamenti esistenziali di base. La natura dell’uomo è curiosa, creativa, appassionata, ha necessità di dare un senso e un significato alle proprie azioni. Necessita di fiducia reciproca ed alleanze con i propri simili per poter condividere una meta.Beh.. in azienda spesso non è proprio così…
Senza questa soddisfazione si appassisce, ci si deprime, ci si annoia, si sente frustrata la nostra natura più profonda, si perde il senso del proprio valore e della propria identità, si vegeta, non si vive, si perde il significato della propria esistenza, la vita diventa senza senso, insensata.
È il lavoro alienato, senza passione, senza energia.Spesso ci si lamenta dell’organizzazione in cui si è inseriti. Ma qual è la responsabilità che ognuno di noi ha nei confronti della propria felicità? Molte volte il vissuto è…”tanto io non ci posso fare niente”…..Moltissimo dipende da noi, basti dire che uno degli elementi che contraddistingue le persone felici è il sentirsi padroni della propria vita, qualsiasi cosa accada, anche indipendentemente dalla propria volontà, la persona felice sa di poter affrontare gli eventi e, in una certa misura ovviamente, sa di poterli gestire positivamente. Ci sono molte cose da dire a questo proposito.Certamente l’autostima gioca un ruolo importantissimo, così come la felicità provata in passato, e l’ottimismo che ne consegue, e poi anche la capacità di darsi mete alla propria portata, la capacità di accontentarsi.E’ anche molto importante mantenere attiva l’energia pulsionale di base, perché se fin da bambini viene favorito l’orientamento a soddisfare i bisogni nelle diverse aree si imparano anche le capacità relative.
Puoi spiegare meglio?Gli esseri umani hanno delle pulsioni di base, che sono sopravvivere, appartenere, crescere e autoaffermarsi. Per soddisfare la pulsione di appartenenza, ad esempio, si devono imparare o affinare comportamenti specifici come la socievolezza, l’altruismo, il calore umano, l’intimità; per la pulsione di crescita si dovrà essere capaci di essere esplorativi, curiosi, intraprendenti, appassionati. Per l’auto realizzazione si dovrà favorire la creatività, l’indipendenza, la fantasia, l’intraprendenza, l’assertività.
E quindi per essere felici ci dobbiamo in un certo senso impegnare….Si, ma oggi mi sembra cruciale anche lo stile di vita del nostro tempo.Stiamo perdendo pericolosamente tre caratteristiche del “sentire”: LA PROFONDITA’: la capacità di assaporare i gesti, di essere consapevoli, mentre si agisce, delle proprie funzioni di pensiero, emozione e comportamento; di essere in presa diretta con se stessi, presenti a se stessi. La capacità di accogliere le sensazioni esterne dando attenzione agli effetti interni e alle risonanze personali, sviluppare la propriocettività; ascoltare gli stati emozionali più profondi e godere del qui e ora.LA LENTEZZA : la capacità di dilatare e ampliare la percezione anche oltre l’immediato presente verso un orizzonte più ampio; di uscire dall’urgenza e dalla concitazione delle emergenze per cogliere e godere delle sensazioni interne ed esterne. Darsi il tempo di assaporare la gioia, ma anche le altre emozioni, per capirne l’origine naturalmente e intervenire di conseguenza sugli aspetti negativi.L’ESSENZIALITA’: la capacità di discernere ciò che veramente conta nella vita, dedicarsi alla soddisfazione dei bisogni di base; ridurre gli stimoli inutili, fare silenzio e trovare calma interiore Fare pulizia di ciò che non merita la nostra attenzione, selezionare gli aspetti della realtà più significativi e prioritari di cui occuparsi; difendersi dai falsi bisogni indotti e dalle richieste superflue, eliminare i “rumori” e i disturbi.Fretta, velocità, consumismo, superficialità, ingordigia sono i veri nemici della felicità. Il potere è un tema molto presente nelle organizzazioni. Anche chi non ne ha per sentirsi sicuro si ritaglia dei piccoli spazi di potere, magari solo trattenendo delle informazioni…ma il potere da la felicità? E come coniugare l’aspirazione al potere con la felicità (o con le pulsioni di base)?Il potere vero è padronanza di sé e della propria esistenza, quindi in questo senso è un elemento molto importante per essere felici. Ma spesso nelle organizzazioni diventa un mezzo per avere delle rivalse per angherie ricevute da bambini. Persone spesso di poca umanità, individualiste e diffidenti, cercano il potere per stare finalmente sopra gli altri, equivocano il comando come se fosse in sé la dimostrazione della loro potenza, immaginano che la superiorità sia la dimostrazione delle loro capacità, e il grado raggiunto, con i suoi simboli economici e di status, come il senso del loro valore.Raggiungono anche posti di potere, ma non sono riconosciuti come potenti, sono solo prepotenti.E un valore non riconosciuto e stimato dagli altri è solo vanità.Un’ altra questione di sofferenza nelle organizzazioni è quello delle maldicenze, dei pettegolezzi e delle piccole cattiverie. È possibili sottrarsi?Questa è un’altra questione cruciale. Il luogo di lavoro per essere efficiente deve essere solidale, sarebbe come se i soldati in guerra si dovessero continuamente difendere dai propri compagni. La condivisione non può essere solo degli obiettivi, delle metodologie o delle conoscenze, per essere efficace qualsiasi gruppo si deve “volere bene”. Anche a dirlo questo concetto sembra folle, ed invece è la base del successo di ogni gruppo umano, il legame affettivo fra i membri è indispensabile per fidarsi, per trovare aiuto nelle difficoltà, per offrirsi in soccorso, per avere supporto emotivo, per scambiare conoscenze e crescere, per reagire alle sconfitte e trovare conforto e tranquillità. I compagni di lavoro dovrebbero essere degli alleati sinceri e reciprocamente fiduciosi.Mi ha sempre indignato vedere quanto tempo si perde nei luoghi di lavoro per difendersi dai colleghi o dai superiori e poi molta parte del burn out deriva proprio dalla carenza di protezione e solidarietà nell’ambiente di riferimento, raramente ha a che fare con le attività o i clienti.E anche il potere dovrebbe essere usato in questa luce, chi guida e ha potere decisionale dovrebbe occuparsi dello stato emozionale delle proprie persone, essere fautore attento del clima di fiducia e trasparenza che ci dovrebbe essere nella sua area di competenza e anche ai confini del suo sistema. Un vero leader è pronto a sostenere e a consolare, ad aiutare a rimediare, ad assistere e rinforzare, deve approfittare di ogni occasione per dare valore alle persone e alla collaborazione reciproca. Spesso il vissuto dei ragazzi di questa generazione è di essere sfortunata rispetto ai padri. L’assunzione a tempo indeterminato diventa un mito o il sogno irraggiungibile di felicità. Cosa diresti loro in questa situazione di grande incertezza?Mi è capitato di parlare di questo in diverse occasioni, quello che credo è importante dire ai ragazzi è che possono fare di necessità virtù, cioè usare il tempo del lavoro precario per orientarsi a costruire il sogno della loro vita professionale.Trovare un lavoro fisso è la soddisfazione della pulsione di sopravvivenza, ed è certamente una meta che dà all’inizio una grande felicità, ma è una felicità che, oggigiorno e in condizioni normali, dura per breve tempo, dopo poco si tende a darla per scontata, dopo un po’ si è di nuovo spinti a cercare di soddisfare la pulsione di autorealizzazione o di crescita. Per questo tanto vale cominciare a mettere in cantiere il proprio progetto al più presto. Devono però sapere che spesso ci vogliono anni per trovare il lavoro che veramente fa per noi e ci piace, ci vuole impegno e spesso lo si deve fare impegnandosi nel tempo libero con studio e corsi professionali mirati. Non bisogna rinunciare alla passione, bisogna cercarla e poi rincorrerla con determinazione e tenacia. Se il lavoro è precario non deve essere precaria la fiducia in sé e la determinazione a realizzare nella vita qualcosa di significativo e importante per sé.Il premio è quello che per tanti, proprio perché hanno trovato un posto fisso qualsiasi fin dall’inizio, diventa un miraggio per cui non vale più la pena di “sbattersi “ troppo.
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mercoledì 13 febbraio 2008

Dee, donne e potere (vipere o creature celesti ai vertici delle organizzazioni?)

“Quella stronza del mio capo”, oltre ad essere il titolo del libro di Bridie Clark, è anche un’esclamazione che si sente ripetere con una certa frequenza nelle organizzazioni e che in modo piuttosto efficace contrasta l’idea (solo l’idea mi raccomando) politicamente corretta che capo-donna-è bello.
Ma come, non eravamo arrivati alla conclusione che le qualità femminili erano proprio quelle giuste per esercitare un potere più umano, per migliorare la qualità del nostro lavoro? Addirittura il “femminile” non doveva diventare un requisito che anche i maschi più machi dovevano imparare a coltivare? E allora come mai le rappresentazioni iconografiche delle donne al potere corrispondono alle figure spietate di Meryl Streep in “Il diavolo veste Prada” o di Tilda Swinton in “Michael Clayton”?
Certo nel nostro paese non è che ci sia una gran quantità di donne al potere e le poche che arrivano sulle vette dell’Olimpo devono faticare parecchio per mantenere la posizione acquisita. Ma la cosa strabiliante è che quando finalmente ci arriva, il grande capo donna il più delle volte è bersagliata da critiche feroci: l’idea più diffusa è che una volta al potere “diventa peggio dei maschi”, si spoglia delle sue caratteristiche femminili per indossare la pesante corazza del guerriero.
Ma quali sono queste particolarità femminili e quanto di questi caratteri distintivi corrispondono davvero alla realtà femminile o sono piuttosto degli stereotipi?

Le competenze manageriali che tipicamente si riconoscono alle donne sono la capacità nelle relazioni, l’attenzione alle persone e ad una migliore qualità della vita lavorativa, la capacità di una visione d’insieme, l’attitudine alla cooperazione. Sono alcune delle particolarità che Jean S. Bolen nel suo “ Le dee dentro la donna” attribuisce alle dee vulnerabili, Era, Demetra e Persefone.
“Io ho sempre concepito la mia attività di dirigente con spirito di servizio” racconta Antonella, 50 anni, top manager in un’azienda di servizi, “e uno dei miei principi fondamentali è che devo essere sempre a disposizione dei collaboratori che stanno lavorando per me”. Certo non è difficile crederle, nel suo ufficio c’è un viavai continuo di persone che le sottopongono quesiti, le chiedono pareri, si vede che è molto amata e che c’è grande confidenza. “Una cosa strana che mi sento dire spesso dai miei collaboratori è che, pur non avendo figli, sembro una madre perfetta”. Ed effettivamente alcune caratteristiche di Demetra la dea delle messi, nutrice e madre, Antonella le ha.
Demetra è una figura soccorrevole, protettiva e generosa, lavora in organizzazioni, come quella di Antonella, che si giovano della sua energia materna. Le difficoltà sono quelle di dire di no, di affrontare un collaboratore incompetente. “A volte questo diventa un vero problema, mi sobbarco il lavoro anche di altri con il risultato che rimango in ufficio fino a sera inoltrata. In quanto a riprendere una persona che sbaglia mi costa grande fatica, licenziare una persona per me è praticamente impossibile”.

Ma cosa succede, quando le caratteristiche manageriali corrispondono a quelle delle dee vergini, Artemide, Atena ed Estia? Queste sono divinità che bastano a sé stesse, agiscono non per piacere ma per seguire i propri valori interni. Determinate e anticonvenzionali, sono capaci di concentrarsi su obiettivi specifici e di raggiungerli.

“Certo quando una donna al lavoro ha un obiettivo chiaro, è ambiziosa e decisa molto spesso è vista come un’arrivista” dice Anna dirigente di 42 anni in una società informatica. “La mia squadra è quasi tutta di donne, le ho sempre preferite sul lavoro. Sono più brave, affidabili ed intelligenti a loro chiedo molto, moltissimo. Mi rendo conto di essere esigente, alcuni, gli uomini per lo più, alle volte non ce la fanno a starmi dietro”. Anna come Artemide, dea della caccia, ha un fisico atletico e uno sguardo deciso, puntato dritto verso il bersaglio. Come la dea si circondò di Ninfe e prese le loro difese, così nel lavoro Artemide ha uno sviluppato senso della sorellanza e della condivisione di valori profondi, soprattutto con altre donne. Proprio per il suo rigore può diventare spietata e, senza accorgersene, ferire le persone meno forti di lei. “Non riesco a capire come mai la collera viene accettata quando si tratta di un capo maschio, quando invece ad arrabbiarsi è una donna ecco che immediatamente viene bollata come arpia”.
Michela, 47 anni, anche lei dirigente, ma in un istituto bancario, ha conquistato con intelligenza il suo potere in un ambiente tipicamente maschile. “Ma se devo dirti la verità, la lotta più dura la faccio con le altre dirigenti donne. Trovo che siano più competitive e dure dei colleghi maschi, con i quali riesco a trovare più facilmente un’intesa”. Atena, dea della saggezza e dei mestieri, nacque direttamente dalla testa del padre Zeus e per questo ha sempre mantenuto il suo rapporto privilegiato con il padre. Come Michela nel lavoro è una grande stratega, ma a differenza di Artemide non privilegia il rapporto con le altre donne e spesso preferisce lavorare con uomini.

E di nuovo, ma ancora peggio, cosa succede se ad avere potere è una donna affascinante e seduttiva, caratteristiche principali dell’unica dea alchemica, Afrodite dea dell’amore e della bellezza. Monica, 37 anni, creativa di successo in una grande agenzia di pubblicità, più che bella è sensuale e per sua stessa ammissione parte del suo consenso è dovuto proprio a questa qualità. “Con la piccola differenza che se ad essere sensuale è un uomo, è un capo carismatico, se invece è una donna, è una puttana. Hai mai sentito dire di un uomo che ha fatto carriera per meriti talamici? Io no, mai. Mentre lo sento dire molto spesso delle donne, me compresa”. Afrodite conquista e seduce posando il suo sguardo alchemico sull’amato creando energia e vitalità. Così nel lavoro ha la capacità di ispirare e sviluppare le virtù di chi la circonda provocando l’effetto Pigmalione che trasforma. “Così ti fai molti amici, quelli che ti amano e che ti seguono, ma anche molti nemici, soprattutto fra le donne”.

Certamente dentro ad ogni donna, di potere o no, abitano molte dee e nel corso della storia personale le divinità si succedono. Così anche per Antonella, Monica, Michela ed Anna. E dunque le caratteristiche stesse si alternano, si mescolano e si trasformano.
Ma perché continuano ad essere approvate solo le qualità delle dee vulnerabili, mentre le dee vergini spaventano e la dea alchemica crea diffidenza? O forse non è più così?
E tu che capo-donna sei? O che capo- donna hai? E cosa ti piace e cosa no?

http://www.lucianazanon.it/

Dee vergini - Artemide, Atena, Estia
Rappresentano le qualità femminili dell’indipendenza e dell’autosufficienza, gli attaccamenti emotivi non le distolgono da ciò che ritengono importante, non agiscono da vittime e non soffrono.L’aspetto della dea vergine rappresenta quella parte di donna che l’uomo non riesce a possedere o “penetrare”, non viene toccata dal bisogno di un uomo o dalla sua approvazione, che esiste di per sé interamente separata da lui.
Dee vulnerabili – Era, Demetra, Persefone
Rappresentano i ruoli tradizionali di moglie, madre e figlia. Dee la cui identità ed il benessere dipendono dalla presenza, nella loro vita, di un rapporto significativo; ciò che le motiva è la gratificazione del rapporto, approvazione, amore, attenzione. Sperimentano la possibilità di crescita attraverso la sofferenza e spesso reagiscono con vittimismo. Dea alchemica - Afrodite
In una categoria a parte troviamo Afrodite, dea dell’amore e della bellezza, viene definita dea alchemica in riferimento al processo magico o potere di trasformazione che lei sola possedeva.

Per saperne di più: www.raphaelproject.com/femme/dee_donna.htm
Jean S. Bolen, “ Le dee dentro la donna”, ed. Astrolabio Continua a leggere!