lunedì 19 gennaio 2009

Navigare nella crisi

Incontro Dario Forti, psicosocioanalista e, tra le altre cose, co-autore con Daniela Patruno di La consulenza al ruolo (edizioni Guerini, 2007) per rinnovare il dialogo che avevamo iniziato un paio di mesi fa, all’inizio dell’autunno, quando quella che già si preannunciava come una crisi difficile era solo agli inizi.

Luciana: Dario, è ormai da qualche mese che “siamo dentro la crisi”. Che cosa la caratterizza, che cosa hai capito, è davvero una crisi quale mai se n’era vista prima una uguale o la paura che ne abbiamo supera le dimensioni reali? Quali domande solleva negli individui e quali risposte sollecita?
Dario: per renderci conto della natura di questa crisi è forse sufficiente misurare quanto la percezione della situazione si sia modificata da quando tu ed io abbiamo avuto la nostra prima conversazione, se non sbaglio meno di due mesi fa. Non dico che le nostre, allora, fossero ancora considerazioni distratte e superficiali; è certo però che il tono di gravità e il senso di urgenza che muovevano allora le mie considerazioni erano ben diversi da quelli che adesso mi obbligano a soppesare i giudizi e a formulare con circospezione eventuali suggerimenti di atteggiamento e di azione…
L: proviamo intanto a dire qualcosa, noi che non siamo né storici né economisti, come le grandi crisi economiche possono influenzare la vita delle organizzazioni.
D. : se ricordi, nella nostra precedente chiacchierata osservavo che il significato effettivo di una crisi dipende fondamentalmente dal vertice spaziale o temporale dal quale la si osserva. Col senno di poi, si può dire che le crisi risultano spesso salutari. A conti fatti (come in tutte le formule colloquiali, anche in questa – ‘a conti fatti’ – si annida una verità scomoda ma reale) le grandi crisi si dimostrano il più delle volte eventi e movimenti rigeneratori nei quali le società sono obbligate a trasformarsi, a trovare nuove strade. Per dirla con le parole degli studiosi della complessità, la crisi corrisponde ad un breakdown, ad un collasso dello status quo che apre la strada ad un salto d’innovazione altrimenti innominabile e impensabile. Volendo fare un discorso più ampio – che non è il nostro – basti pensare alla crisi dell’intero settore automobilistico: è vero che gli analisti lo dicevano da quasi vent’anni, e che aziende più pre-videnti, come la solita Toyota, hanno saputo prendere per tempo strade alternative (penso ai motori con alimentazione più gentile), ma non ci sono dubbi che adesso tutte le case – o almeno quelle che avranno il tempo e il fiato per riuscirci – saranno obbligate a cambiare drasticamente direzione…
L.: parliamo allora di questa crisi, di quella in cui ci troviamo anche noi…
D.: parlavo di punti di vista che danno significati diversi al medesimo evento; è evidente che se della crisi consideriamo l’impatto sulle storie individuali, allora ciò che vediamo sono enormi costi sociali e sofferenze terribili. E soprattutto notiamo l’incapacità delle persone di comprendere in quale effettiva condizione (di prossimità al pericolo) si trovino. È noto l’esempio letterario che ricorre in questi frangenti: l’episodio de La certosa di Parma in cui Fabrizio Del Dongo, il protagonista, viene a trovarsi nel bel mezzo della battaglia di Waterloo, e lì vi si smarrisce… Il problema però è proprio questo: stare all’interno di una crisi è come trovarsi nella nebbia; non si vede nulla e non si sa più da che parte muoversi. Forse ne potremo uscire migliori di come vi siamo entrati, oppure ciò che ci sta capitando potrebbe segnare la rovina nostra o del mondo che ci è caro; non lo sappiamo e tutto ciò necessariamente produce confusione e angoscia. Per contro è certo che in momenti come questi si osserva un’accelerazione del tramonto di modi e comportamenti consolidati, che all’improvviso appaiono inadeguati e ingiustificati…
L.: l’attualità ci offre innumerevoli esempi di questo cambiamento di percezione…
D.: …sì, penso all’automobilista americano che trovava naturale viaggiare su auto che consumavano come camion, o delle nostre piccole schizofrenie quotidiane che ci fanno ritenere normali comportamenti di consumo ad elevata produzione di rifiuti e, al tempo stesso, temere per il buco dell’ozono o commuoverci per gli orsi alla deriva sul pack… La volta scorsa poi parlavamo dei piccoli privilegi delle corporazioni che alla fine accumulano crisi spaventose come quella di Alitalia o dei ‘fannulloni’ su cui il ministro Brunetta ha impostato tutta la sua azione politica; fenomeni che mettono a nudo un pensiero di un mondo stabile, protetto e prevedibile che, nel suo venir meno quasi all’improvviso, ci fa sentire in balia di eventi totalmente al di fuori del nostro controllo. Pensa alle conseguenze umane dei processi di delocalizzazione che spesso colpiscono anche imprese efficienti e lavoratori qualificati (l’esempio recente più assurdamente tragico è quello della Tyssen di Torino). Non ricordo più chi sia stato a paragonare il sentimento diffuso di questa nostra epoca di globalizzazione con quello dei sudditi degli stati del XVII secolo che, a seguito di guerre, trattati o anche solo di matrimoni dinastici, si trovavano a dover subire diversi sistemi di legge, fiscalità o religione…
L.: mi viene in mente che una di queste mattine un bancario ha telefonato alla radio, raccontando come in quest’ultimo periodo vivesse un periodo di grande stress per sentirsi attore egli stesso della crisi di tante famiglie sue clienti. Questa crisi può essere occasione anche per porre una questione morale? Non solo all’interno delle banche ma in qualsiasi altro posto di lavoro… c’è il tema delle disparità retributive e nello stesso tempo delle responsabilità individuali. Questa crisi ci può aiutare a diventare più equi, trasparenti, responsabili? Che cosa può dare alle giovani generazioni?
D.: a rischio di proporre accostamenti impegnativi, direi che questa testimonianza conferma quanto si sa da sempre del senso di colpa di chi ha causato, anche in modo involontario, un disastro (pensa al macchinista che non ha visto un segnale ferroviario, o al responsabile di fabbrica che, per ridurre i costi, ha ridimensionato i programmi sulla sicurezza…); senso di colpa che in certi casi – e la cosa non può che suonare atroce e ‘incomprensibile’ – colpisce anche le vittime stesse della violenza (pensa ai bambini maltrattati o ai sopravvissuti ad uno sterminio), le quali si chiedono: ‘quanto ho contribuito io a ciò che mi è capitato?’, oppure: ‘perché io ce l’ho fatta a sopravvivere?!’; nevrosi traumatiche, le chiamavano i manuali di psicopatologia, dalle quali si rischia di non guarire mai più nel corso della vita…
L. veniamo dunque agli effetti della crisi sulle persone che lavorano nelle organizzazioni…
D.: proprio in questo periodo sto vedendo una persona, responsabile della gestione del personale in un’azienda di un settore al centro della crisi, a sua volta in fortissima crisi personale e di ruolo (il capo intende farla fuori in occasione di una prossima riorganizzazione della direzione). Non è una novità che nei colloqui di counseling (di ‘consulenza al ruolo’, come lo chiamiamo noi psicosocioanalisti) si osserva un ondeggiare continuo tra vissuti persecutori (tutti contro di me: il capo, i colleghi, la cultura aziendale…) e sensi di colpa circa i propri errori o anche solo la mancata comprensione dei segnali iniziali di difficoltà; un ondeggiare che è tipico di momenti di perdita di preesistenti sicurezze. In questo caso, invece, ciò che mi colpisce è l’effetto di marasma, in cui si annebbia ogni capacità di giudizio in una persona che, in altra occasione, avevo conosciuto come consapevole, intelligente e intuitiva.
L.: per cui…
D.: …per cui, ipotizzo che questa è una crisi che sembra attaccare la capacità delle persone di mantenere la percezione della realtà esterna (quali passi sono utili, quali errori vanno assolutamente evitati, quali opzioni sono più preferibili o con maggior probabilità favorevoli ecc.), e soprattutto la percezione di sé, della propria realtà interna; il che, concretamente significa perdita di consapevolezza dei propri principi non negoziabili, dei bisogni irrinunciabili, delle proprie ‘zone d’ombra’, così come delle riserve di energia recuperabili in condizioni estreme… L’effetto psicologico è la paralisi. La volta scorsa ti avevo detto che, più ancora della foto ormai famosa dei broker della Lehman con le scatole degli effetti personali in mano, mi aveva colpito quella in cui si assiepavano in gruppo sotto gli uffici della banca ad aspettare notizie, incapaci di muoversi…
L. se l’effetto è la paralisi, come si riesce allora a lavorare con lucidità e impegno in una fase dove non si vede alcuna prospettiva?

D. per superare la paralisi c’è la necessità di rafforzare la capacità di auto-orientamento: fondamentale diventa la lucidità di saper in quale direzione muoversi; come Teseo nel labirinto, occorre saper leggere la realtà, capire dove si è e quali sono le strade ‘ostruite’, quelle ‘percorribili’, o almeno ‘liberabili’…

L. e per farcela su quale capacità è prioritario lavorare personalmente?
D. : io sono stato educato, prima di tutto in famiglia, poi a scuola e soprattutto da alcuni Maestri a cui va la mia eterna riconoscenza, a quella che, con una certa pomposità, si indica come ‘etica della responsabilità’; quella, per intendersi, che ci obbliga alla consapevolezza dell’impatto delle nostre azioni e che echeggia in massime famose del tipo: ‘non chiederti cosa può fare l’America per te, ma cosa puoi fare tu per l’America’, o ‘non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te stesso’. Massime la cui fresca saggezza si poggia sul principio di ‘reciprocità riflessiva’ che penso – o almeno spero – ci sia di aiuto nella ricerca di ‘strategie di uscita’ dalla crisi attuale ; no, mi correggo: non di uscita, ma di ‘entrata’ in una crisi che, temo, non sarà affatto breve né prevedibile nei suoi tratti ed esiti…
L.: ma, concretamente, cosa si può fare per stare meglio?
D. il rischio più grande (e tuttavia in una certa misura inevitabile) è quello di considerare gli eventi come segni di un ‘destino cinico e baro’, opaco e impenetrabile, cui assoggettarsi fatalisticamente, eventualmente maledicendolo. Come non mai è necessario invece uscire dallo stato di ‘ingenuità primitiva’ (quello che ci ha lasciato in eredità la nostra natura di esseri viventi che fino all’altro ieri vedevano i fulmini come saette scagliate da un dio irascibile) e armarsi dell’intelligenza delle cose che la nostra specie ha saputo sviluppare faticosamente e dolorosamente; ma questo, mi è abbastanza chiaro, è un programma che richiede dosi massicce di sangue freddo e di tenacia.
L. cosa bisogna fare allora per sopravvivere e, auspicabilmente, rinnovarsi?

D.: nelle organizzazioni, ma lo stesso discorso si può fare per chi, come noi due, fa il consulente, la cosa migliore per sopravvivere è tenere bene gli ‘occhi aperti’ (mai perdere la concentrazione!) e ‘navigare a vista’ (evitando scogli, bassi fondali, mine…); per rinnovarsi è poi necessario continuare ad esplorare l'orizzonte (alla ricerca di nuovi passaggi negli stretti e nuove rotte). Fuor di metafora, ‘navigare a vista’ significa uscire da una condizione – ripeto assolutamente comprensibile in situazioni fortemente ansiogene – di ‘ingenuità’ e banalizzazione degli eventi: fare invece attenzione ad ogni passo, muoversi con circospezione, mettere ancora più attenzione nell’analizzare a fondo attese e pretese dei clienti e dei capi, strutturandosi per soddisfarle nel modo più utile. Esplorare l’orizzonte vuol dire individuare spazi liberi, procacciarsi incarichi (non solo accettarli di maggiore o minore buon grado!) e impegni, magari faticosi e rischiosi (che probabilmente altri hanno snobbato per mancanza di coraggio. Poco fa mi chiedevi quali fossero le capacità oggi più importanti: attenzione e ascolto, con cui valorizzare il proprio ruolo e cercare nuove possibilità. Insomma essere umili e propositivi (‘depressione benigna’ la definiva Luigi Pagliarani, il mio maestro e fondatore della psicosocioanalisi): sono consapevole di ‘trovarmi nei guai’, mi rendo conto che non potrò risolvere ogni problema, ma so per certo che farò di tutto per risollevarmi, o almeno per non sprofondare.

L.: come la volta scorsa, ad un certo punto nomini la parola tabù: depressione…

D. sì, perché sostengo che è proprio in situazioni come questa, che indurrebbero a reagire automaticamente con vissuti di persecutività, che dobbiamo sforzarci di rispondere in modo diverso, controintuitivo, ad esempio accettando la ‘dipendenza funzionale’ da capi e clienti, che è meglio sorprendere che subire, e rifiutando invece la ‘dipendenza difensiva’, rancorosa, lamentosa, in fin dei conti autolesionistica. È invece importante mantenersi sempre vigili, darsi obiettivi e programmi, non richiudersi in sé, ma al contrario arricchire e sfruttare le reti di relazione ed imporsi, con autodisciplina, un sistematico scouting delle opportunità.
L.: anche qui, non solo in America, ormai molte aziende accelerano con i tagli. Molti manager vengono licenziati, a volte solo per ridurre le spese. Cosa possono fare questi manager? Che consiglio dare, chi li può aiutare? Negli USA esiste un club dei “manager falliti” on line… a quali bisogni un’iniziativa del genere può rispondere? E ancora, cosa possono fare le aziende per gestire al meglio queste situazioni – ammesso che abbia senso parlarne, al di là delle solite procedure comprendenti soldi e outplacing…
D. non credo si debbano inventare politiche o programmi ad hoc; si tratta invece di generare una diffusa capacità di aiuto e di ‘auto aiuto’: ogni situazione che aumenti la capacità di riflettere è utile e andrebbe sfruttata senza esitazione, direi con ‘utile egoismo’. Checché se ne dica, in azienda non mancano le occasioni per l’apprendimento e la formazione; non penso tanto ai corsi, la cui programmazione segue procedure e rituali forse troppo lenti e burocratici per il tipo di bisogno che le persone avvertono in momenti come questi, quanto – e soprattutto – alla possibilità di trovarsi ad esempio un mentor (i senior al di fuori della mischia e non più così assatanati su obiettivi e carriera non aspettano altro che qualcuno chieda loro qualche consiglio) o di attivare del peer coaching con un collega che viva analoghe preoccupazioni, o collegarsi a qualche social network utile allo scopo di scambiare delle ‘dritte’ professionali (per intenderci, lascerei stare il solito, cazzeggiante, Facebook… Va cioè ricercato tutto ciò che può essere di stimolo all’autoriflessione, alla possibilità di alzare la ‘soglia di attenzione’ su di sé, di supporto ad un progetto di ‘self empowerment’. Se poi la necessità di una guida strutturata e affidabile incalza, si tratta di trovarsi un supervisore, un ‘consulente al ruolo’ – quella persona cui ho fatto prima riferimento ha definito il lavoro che stiamo facendo insieme un investimento su di sé, una necessaria ‘assicurazione sulla (propria) vita (professionale)’ – che, almeno inizialmente, aiuti a ritrovare l’orientamento e a riprendere il controllo della situazione e che poi, quando magari la situazione di crisi sembra superata o almeno arginata, permetta di imparare a lavorare in modo sistematico sulla focalizzazione delle proprie capacità e potenzialità…
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