lunedì 16 marzo 2009

CONFINE O CONFINO? PROSPETTIVE DEL NEO NOMADISMO IN TEMPI DI CRISI


“E’ come trovarsi di fronte ad un immenso spazio vuoto, ma non il baratro nel quale mi sembrava di precipitare quando mi svegliavo di soprassalto la notte, no…è come una distesa infinita dove si vede l’orizzonte. Certo ogni tanto ho paura, chissà cosa mi accadrà, ma se ripenso a quello che mi sono lasciata dietro, ancora mi sento soffocare, come in una prigione angusta.”.
Nel deserto, terra d’elezione dei popoli nomadi ed esempio eccellente di assenza di confini, chi arriva dalle nostre claustrofobiche città spesso prova un senso di vertigine di fronte all’immensità dello spazio. La stessa vertigine che possiamo provare di fronte alle nuove possibilità che non abbiamo mai considerato, perché al di là dei nostri immaginari confini.
Così le parole di Sophie, raccolte in uno degli ultimi incontri di coaching, testimoniano la nuova prospettiva di chi ha scelto di ampliare i suoi orizzonti.
La cultura stanziale dell’occidente, centrata su organizzazione e previsione, ci ha abituati a costruirci delle prospettive ben definite entro cui agire. Eppure la storia degli ultimi anni sempre più spesso ci lancia messaggi discrepanti, la globalizzazione, le nuove tecnologie, i mercati finora sconosciuti mettono tutti i giorni alla prova la nostra sedentarietà.
La stabilità è continuamente minacciata e allo stesso tempo minacciante.

Essere Nomadi vuol dire rinunciare ad un lavoro che non piace, come Sophie, che un po’ nomade lo è sempre stata. Nata negli Stati Uniti da padre francese e madre argentina, entrambi i genitori musicisti è stata abituata fin da bambina a spostarsi per seguire le loro tournee. A tre anni conosce già tre lingue, altre tre le impara crescendo. Agli spostamenti con i genitori seguono gli spostamenti per studio, poi per accompagnare il marito. Dopo l’Università comincia a collaborare con una società finanziaria, si sposta da uno stato all’altro per poi trasferirsi a Parigi, dove entra nel mondo della moda. Gira il mondo, assume incarichi sempre più importanti, riceve molte proposte, cambia azienda, fino ad approdare alla direzione del marketing di un’importante società del settore.
Eppure quando ci incontriamo, sente che qualcosa non funziona più.
Sono dei piccoli segnali, la stanchezza e una leggera depressione al mattino prima di andare al lavoro; la sofferenza e il senso di inadeguatezza se qualcosa non è più che perfetto; la mancanza di piacere quando raggiunge i risultati, i risvegli improvvisi nel cuore della notte.
Per Sophie è ora di cominciare un viaggio diverso, non più attraverso i continenti, ma dentro di sé. Nelle prime sedute di coaching ripercorrere le sue scelte lavorative e comincia a chiedersi: “Perché ho scelto questo lavoro? Che cosa mi spinge ad affannarmi così per raggiungere un successo che poi non mi da soddisfazione?”. È un viaggio doloroso e con molti rischi. Il rischio di scoprire che tutte le sue fatiche non sono altro che il desiderio di compiacere, di sentirsi dire brava, di sentirsi sempre all’altezza. “Ma allora qual è la reale Sophie? Qual’è il mio vero talento?”. Il rischio di scoprire che c’è un’altra Sophie che vuole uscire dal copione scritto tanti anni fa e ormai fin troppe volte recitato.
Dopo molte riflessioni, ha preso coraggio, ha deciso di rinunciare al vecchio mondo e si è licenziata fra lo stupore di tutti. Ancora non sa esattamente cosa farà, ma di certo quello che vuole scoprire sono le sue motivazioni profonde, dopo arriverà il lavoro giusto per lei.
“E’ come trovarsi di fronte ad un immenso spazio vuoto….”

Se la capacità d’interpretare i movimenti delle nuvole, il colore di un tramonto o la direzione del vento era un sapere indispensabile ai popoli nomadi, ora sempre più diventano importanti la capacità di scorgere cosa c’è più in là di quello che vediamo nell’immediato.
Sempre più spesso, come specie e come individui, avvertiamo l’urgenza di tornare ad un neo nomadismo, ad una nuova capacità di esplorare, al coraggio di lasciare dietro di se quello che fino ad oggi era familiare.
Ma questo costa fatica: la nostra storia ci ha abituato a prevedere, programmare, a sapere esattamente cosa faremo domani, a limitare, a mettere i confini.
Ignari spesso che sul vocabolario alla parola “confine” segue la parola “confino”.

Essere Nomadi vuol dire smettere di lamentarsi e rischiarsi in un'attività tutta nuova come Giovanni.
Giovanni è un ingegnere-inventore, ai tempi direttore del servizio tecnico di un’importante azienda nel settore dell’elettronica nel Nord Est. Comincia a lavorarci a 27 anni e per i 10 successivi, lui e l’azienda crescono assieme. Parla di quel periodo con molto entusiasmo, descrivendolo come un momento magico e particolarmente creativo. Ma come spesso succede nelle favole ad un certo punto arriva qualche spirito maligno e distrugge il bel gioco: le aziende crescono, passano di mano, cambiano i vertici, cambia l’organizzazione. In questo caso alla creatività un po’ naif che era il motore della vecchia impresa si sostituisce un’organizzazione intelligente, fatta di obiettivi, metodo, procedure e finanza.
E a Giovanni cominciano a chiedere un diverso modo di lavorare e di gestire le persone, molto lontano dai suoi ideali.
Quando incominciamo il percorso di coaching è nella fase della lamentela, della depressione, del come sono sfortunato, “pensare che proprio adesso sto lavorando ad un idea geniale…di cui ora tutti se ne fregano…se solo fossero diversi…”.
La prima domanda, piuttosto dura ma indispensabile per sbloccare la sua energia, è: “Quale vantaggio posso ricavare da questo continuo biasimo?”. Giovanni realizza abbastanza in fretta che continuare così lo inchioda in uno schema indolente e così lavoriamo sulla seconda domanda “Quale scenario, mai immaginato, posso disegnare davanti a me?”, domanda che innesca una fase molto creativa.
Alterna momenti di euforia ad altri in cui si sente scoraggiato, fasi in cui gioca con la sua immaginazione ad altri in cui realisticamente utilizza analisi di mercato. Approda infine ad importante decisione: brevetta l’idea geniale cui stava lavorando, fonda la sua società, e comincia a rimboccarsi le maniche per vendere.
Ora fra i suoi clienti annovera anche la sua vecchia azienda.

Essere nomadi significa essere curiosi, mettere la testa fuori dal guscio, conoscere il diverso, riconoscere sé stessi, fare progetti più grandi, rompere infine il guscio e cominciare a vivere. Ma superare il confine nell’era global-tecnologica, è anche aprirsi allo spazio interiore, concedersi di ampliare i propri orizzonti esistenziali. Essere nomadi allora implica che lo sguardo possa spaziare non solo oltre, ma più che mai dentro di sé.

Essere Nomadi vuol dire accettare di crescere e di avere successo come Andrea.
Nonostante l’aspetto più giovane della sua età, le continue battute, le camicie sgargianti ed un viso sempre in movimento, Andrea ha una rispettabilissima posizione all’interno di un’altrettanto rispettabile società milanese che si occupa di finanza. E’ approdato al mondo dell’economia dopo diverse esperienze, non tutte felici e non sempre conseguenti l’una con l’altra. Ma negli ultimi anni le cose vanno magnificamente bene, piano piano la sua squadra cresce e a lui viene affidato un incarico di grossa responsabilità, che coinvolge molti uomini e notevoli strutture.
Ma dopo l’euforia del primo momento, incredibilmente cominciano ad affiorare difficoltà insospettate: contrasti mai avuti prima con il capo, collaboratori, un tempo amici, ora distanti. Improvvisamente tutti gli chiedono di crescere, di prendere decisioni. Ma lui non sa se è tagliato per questo.
Ci incontriamo quando Andrea entra in crisi perchè i contrasti diventano davvero ingestibili nonostante, a suo dire, “…il mio comportamento sia sempre quello di un tempo…”
Ma forse è proprio questo il punto, il comportamento (e forse l’immagine di sé) non può rimanere lo stesso. Le prime domande sono intorno al suo nuovo ruolo. “Quali responsabilità e competenze richiede la mia nuova posizione? Sono sicuro di volermi impegnare così tanto? Che cosa mi impedisce di prendere decisioni che possono essere impopolari?”
E poi rivediamo le esperienze passate: “C’è una costante nel naufragio dei miei vecchi lavori? Che cosa mi costringe sempre allo stesso cliché, quello dell’eterno simpatico?”. Ed infine: “Che cosa voglio davvero per me stesso?”.
Dopo tanto interrogarsi e discutere, dopo apparenti decisioni smentite dagli atti, Andrea alla fine ha deciso di crescere e come un vero Nomade che si accinge a partire ha bruciato tutte le suppellettili inutili. Si è liberato dalle continue battute e dal vecchio cliché accettando finalmente le nuove responsabilità da adulto maturo.

3 commenti:

Francesco ha detto...

Ciao Luciana, bel post!
Ti segnalo una riflessione su due tipi diverso di viaggio fatta dal filosofo Levinas.
Egli distingue tra Ulisse ed Abramo.
In Ulisse il viaggio è un eterno ritorno a sé, al sé primordiale e, tutto sommato non espreime un cambiamento "vero" in quanto il punto di partenza e quello di arrivo coincidono.
Invece in Abramo il viaggio è veramente un'occasione di "esodo", ex-odos, strada di uscita da sé stessi verso una méta che è radicalmente altra.
Buon viaggio!

luciana ha detto...

grazie dei suggerimenti francesco, ora andrò a vedermi levinas

Unknown ha detto...

Davvero un titolo stimolante!
Mi sa che lo smarrimento dell'orto interiore, quel centro ricco di memorie individuali e collettive che assicurava l’orientamento dei percorsi, ci fa girare a vuoto, vittime del movimento per il movimento. Resta il puro agitarsi e il viaggio fa da alibi; ci si butta nel mondo esterno per dimenticare il sè: il viaggio come anestetico
“soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni
e che da vecchio metta piede sull’isola, tu ricco di tesori
accumulati per strada”
Costantino Kavafis